martedì 23 giugno 2009

Milano a giugno, semplicemente

Giorni strani trascorsi a riflettere sull'importanza della simmetria nella vita delle persone e del senso di sicurezza che questa infonde in me. La metafora della mela tagliata a metà ed il pensiero che corre sulle rive dell'Hudson perdendosi tra le strade della downtown prima di risalire per l'ottava Avenue fino a Central Park e poi avanti ancora e ancora, fino alla fine, fino a ritrovarsi a correre ai giardini di Porta Venezia senza alcun motivo due volte alla settimana ed arrivare a chiedersi, una volta tornati a casa, sotto la doccia, il perchè di quella corsa, di quel fiato greve e della schiena sudata senza riuscire a darsi una risposta, ormai rassegnati al fatto che, in ogni caso, il giorno dopo ci si ritroverà comunque a correre così come ci siamo ritrovati anche la settimana prima, e ci ritroveremo la successiva e quella dopo ancora fino ad entrare in un circolo vizioso senza tempo e senza fine ancora quì. Poi imbracciare la bicicletta come una carabina e lanciarsi a perdifiato giù lungo il Corso, girare in Galleria, schivare i passanti rintronati dall'eleganza del duomo, dalla magnificenza dell'opera umana e prendere velocità sulla graniglia lucida che riflette i sontuosi soffitti per arrivare a tutto gas a perdersi nelle vie anonime del centro, quelle finte fatte di plastica e talmente artefatte al punto che le vetrine prima o poi prenderanno vita, i manichini si alzeranno, si allenteranno le cravatte e si rimboccheranno le maniche delle camicie lanciando quei cazzo di gemelli d'oro contro il vetro infrangibile e calpesteranno gli occhiali a specchio griffati e poi si fermeranno d'un tratto a guardare, ad osservare, a volte attoniti altre con rabbia, i passanti che ignari continueranno a scambiarsi le stesse effusioni amorose davanti a mendicanti con la casa sulle spalle invocanti, in nome d'iddio, qualche spicciolo, con le foto dei figli malati e dei mariti morti o smarriti in bella mostra e poi verso i grassi banchieri dalle tasche piene di carte di credito, i polsi appesantiti da etti di acciaio marchiato Rolex e la bocca piena d'oro (come il mattino per mio nonno) assuefatti all'agiatezza ed ancora ai giovani artisti consacrati dalle televisioni alla celebrità, all'eccesso coatto, con i loro visi perfettamente abbronzati, le sopracciglie pettinate, i capelli sparati come atomi impazziti e le barbe dal perimetro disegnato da coiffeur laureati allo IED in omosessualità ad ogni costo, anche simulata ed infine, alle rampanti modelle tristemente destinate all'anoressia oppure a riempirsi le bocche dei cazzi gelatinosi di vecchi milionari per cercare di diventare qualcuno e magari riuscire pure a vedere la propria foto alloggiare per qualche effimero numero su qualche rivista più o meno patinata e poi il giorno dopo basta, non ci sarà più nessuno, o forse solo un Toscani finché non si sarà rotto le palle pure lui, disposto a fotografare un pezzo di pelle gettato su un'impalcatura ossea minuta e fragile ed allora, tutte queste giovani resteranno sole con le loro narici incrostate di sangue e cocaina senza più mestruazioni e troppo lontane dagli amorevoli genitori e non potranno fare altro che morire in anonime stanze polverose di hotel con le finestre che si affacciano su strade sconosciute dove i preti dal collarino bianco e gli abiti scuri toccano furtivi i bambini del quartiere mentre compiacenti genitori aspettano di vedere i propri figli cresimati dal vescovo in persona. Le scritte spray campeggiano stanche sui muri di quei quartieri che furono proletari e che oggi sono semplicemente pericolosi e tristi, dove l'eroina ed il comunismo hanno parimente perso la guerra mentre in centro, al circolo del bridge, il cerone di fondotinta sui volti delle sessantenni altolocate dal seno rifatto e dal sorriso falso comincia a colare tra una Muratti Ambassador ed una battuta razzista quando si guasta l'aria condizionata. La stazione centrale resiste al cielo pesante e plumbeo di questi giorni come Vittorio Emanuele, da vero uomo, sopporta il guano dei piccioni su tutto il corpo senza fare una piega.
"Vivo come un cammello in una grondaia in questa illustre e onorata società..."
Le casse lanciano contro le persone e le pareti, il bancone del bar, gli alberi e le stelle la voce di Battiato sotto un firmamento incendiato di una metà giugno triste-lombarda. Poi, ad un tratto lei, calata dall'alto come nelle peggiori rappresentazioni teatrali natalizie all'oratorio, di fronte a me in mezzo a migliaia di ragazzi, cani, vecchi, bambini, transessuali, malati terminali e donne gravide; i suoi occhi, due, luminosi e scintillanti che mi sussurrano parole bellissime con una voce suadente proveniente da una sirena in mezzo al mare. E poi, due birre, ancora due birre e poche parole, solo gesti, movimenti e sguardi. Non c'è sabbia sotto i miei piedi, non c'è acqua più in là, e nemmeno il fuoco acceso in piena notte alla penombra del quale fare il bagno, ma è come se tutto questo fosse dentro di me. Fuochi artificiali, neuroni che ballano nudi ebbri di vita nel parco della mia mente. Coney Island stasera è solo nella mia testa e lei è lì, accanto a me, a godersi lo spettacolo. Una strana alchimia al sapore di Menabrea e Negroni sbagliato ovatta i suoni delle parole e smussa gli spigoli delle figure, le luci si accentuano e le sfumature dei colori si sciolgono in miriadi di tonalità intermedie a me sconosciute. La mia mano le sfiora il viso, le scende lungo il collo e risale verso il suo orecchio, sinistro, splendidamente nudo. Poi la voce riprende
"E ancora, sto aspettando, un'ottima occasione per acquistare un paio d'ali, e abbandonare il pianeta..."
Niente esiste più ora. In balìa di un flusso d'incoscenza che regna sovrano sui movimenti del mio corpo, mi lascio traspostare leggero come l'elio verso di lei. Mi chino. Lei reclina dolcemente il capo lasciando che una cascata di capelli le scenda dalla nuca sulle spalle e, disegnando una plastica figura klimtiana, le mie labbra si posano sulle sue. I sentimenti e le emozioni conquistano una terza dimensione. Ora si sviluppano anche in profondità. Un brivido innocente mi percorre la schiena mentre la luna avvolge i nostri corpi inconsistenti. Chiudo gli occhi, stacco i timpani e mi perdo.
La voce continua e continua a cantare un lamento che non colgo, che non mi serve più.
"...E cosa devono vedere ancora gli occhi e sopportare?
I demoni feroci della guerra, che fingono di pregare!
Eppure, lo so bene che dietro a ogni violenza esiste
il male... se fossi un po' più furbo, non mi lascerei tentare.
Come piombo pesa il cielo questa notte.
Quante pene e inutili dolori."

Penso a tutto questo, alle guerre più o meno giuste, alle elezioni perse ed alla crisi, alle pandemie ed ai milioni in Svizzera, al cioccolato ed agli orologi, faccio associazioni logiche irrazionali, ci ragiono sopra e giungo alla conclusione che non me ne frega nulla, adesso non più...

La notte non è mai abbastanza lunga e buia quando vorresti non svegliarti più.

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