lunedì 5 luglio 2010

Tormentoni estivi di 20 anni fa

(racconto liberamente ispirato ad uno dei tanti sondaggi inutili del sito repubblica.it cui partecipo durante le ore di lavoro)

Fuori dalla finestra il mio vicino ubriaco canta assieme al suo stereo tormentoni estivi di 20 anni fa. Roba che appena ricordo fatta di vacanze al mare, ombrelloni e romanticismo non ancora corrotto dalla pornografia online. Non è male a cantare il mio vicino. Ha questa voce che sembra stare bene con tutto. E poi conosce le parole. Nel suo terrazzo mima incerto una esibizione live impugnando un manico di scopa e poi un telecomando, sotto una notte di nuvole grattate su una lavagna con un gesso rumoroso ma impotente. C’è quel caldo che ti appiccica allo schienale dello sdraio con la trama in tubini di plastica rossi. Quello che ti spinge a posizioni improbabili e spesso a tenere la pancia scoperta.
Mi viene in mente Enrico nel piccolo terrazzino in boxer da spiaggia e canottiera con i piedi in un secchio di ferraccio recuperato chissadove.
Un pomeriggio estivo.
Quel giorno decise che non aveva senso fare il pesto alla genovese con i pinoli, che le noci andavano più che bene.
Quel giorno capii che stavo crescendo e forse avevo sviluppato una personalità asociale fatta di sughi pronti e monodose per non dovermi preoccupare di come conservarli. Fondamentalmente mi confondeva l’inquantificabilità del “una volta aperto consumare entro pochi giorni”. Probabilmente retaggio del fatto che quando mio nonno mi parlava dell’altro giorno per lui erano gli anni della guerra e per me il 1987.
Mangiammo spaghetti Coop col pesto alle noci di Enrico mentre mi raccontava di questa ragazza che aveva conosciuto a lezione. Quella che passava il tempo a disegnare fate ed elfi durante le ore di macroeconomia. Quella che due giorni prima gli aveva chiesto se poteva fotocopiare i suoi appunti.
“e sai che significa questo?” domandò affermativo.
Lo guardai mentre allungavo l’ultimo boccone di pasta con una bottiglia da un litro di birra aperta da giorni ormai sgasata.
C’è da dire che Enrico probabilmente aveva ragione e quella che seppi chiamarsi Giulia magari ci sarebbe pure uscita con lui. Del resto solo nell’intimità portava quella improbabile canottiera a metà tra il gay pride e le raccomandazioni di una madre apprensiva. Per il resto era ineccepibile. Sapeva anche qualche barzelletta ed usava con minuzia il filo interdentale prima di uscire.
Pensai che non sarebbe stato male se Giulia avesse avuto una amica.
“che dici?” domandò il mio ego accaldato ma ancora ribelle.
Lui era su di giri. Col caffè avevamo aperto l’immancabile bottiglia di amaro fatto da un implacabile ubriacone che, applicando la stessa teoria dell’efficienza di Enrico, era riuscito a imbrigliare tutti i gradi dell’inferno in 1 litro di liquido torbido vagamente aromatizzato con qualche radice. Stava in una bottiglia da vino di quelle verdi, con un tappo di sughero e anche con tutto il supporto di Wikipedia non saprei dire bene che sapore avesse. Ma non era male però, piaceva anche a qualche ragazza: quelle alcolizzate croniche.
Fu così che Enrico si alzò in piedi tenendo il suo cellulare come fosse una spada laser.
Fece un movimento rotatorio barcollando. Poi si ricompose ed iniziò a scorrere la rubrica. Incominciò dalla A soffermandosi di tanto in tanto per un sorriso che ricambiavo complice mentre mi scolavo la sua bottiglia.
Poi si arrivò alla G e le mie antenne iniziarono a vibrare. Mi sentivo tipo cicala rumorosa. Passammo un paio di volte da Giada e Giuseppe senza passare per nessuna Giulia. Lui disse che era sicuro di averlo salvato.
Cercai di staccare un pezzo di noce che si era rimasto incastrato tra i premolari che notavo solo allora.
“devo averlo salvato!” disse appoggiandosi sul divano curvo e minaccioso come un gancio da macellaio sul telefono.
Non trovammo il numero, né il modo di averlo benché chiamammo sia Giada che Giuseppe.
E poi non ci parlammo per il resto del pomeriggio.
Enrico si riprese la sua bottiglia ed io Bologna non mi ero mai sentito tanto solo.
Per fortuna ora posso aggrapparmi alla disperazione del mio vicino di casa che ormai in mutande canta con un cartone di vino in mano.
E devo dire che non ha più quella bella voce intonata di poco fa.

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