mercoledì 4 aprile 2007

galline

pensavamo spesso alla rivoluzione ma il più del tempo badavamo a bere. una birra doppio malto come uno spritz. un bloody mary od un cocktail a base di rum. qualche volta ci accompagnavamo con una busta di patatine fritte, altre con pochi grammi di arachidi. raramente con qualche ragazza. ogni tanto poi ci si trovava seduti dietro il banco imbandito per l’aperitivo. allora di solito si attaccavano le olive per passare quindi ai quadrati di pizza. ma non si mangiava comunque molto, non ci interessava. cosiccome la politica che infondo era una passione indotta dal nostro disinteresse per il calcio. e pur conoscevo alcuni attenti al calcio ed alla politica. ma quella era gente che mi curavo di evitare. sapevano di tutto un po’ e cercavano di dimostrarsi la mia ignoranza, che io di per me conoscevo. abbisognavano di me per assurgere a mito, genio, saggio. erano il classico compagno del terzo banco che sputa sicuramente più lontano di tutti. io dal canto mio sapevo di essere un genio e a Matteo glielo dicevo pure e lui mi confermava indietro che “sì, siamo dei geni”. ed in fondo era vero perché, quando solo, stavo zitto. il genere umano era noioso nella misura in cui i bestseller dei soliti autori ricalcano le solite trame avendo il solito successo. come il nero è sempre di moda. o comunque accettabile, mai eccezionale.
mi disse che aveva una idea. “c’ho una idea geniale” mi disse. ed io ero certo fosse una idea rivoluzionaria. fossimo stati in un film avrei risposto “spara” ma, sentendomi poco in arma, mi limitai a fissarlo mentre prendeva l’aria per la spiegazione. un bel respiro, quasi Al Pacino.
“occupiamo Piazza Maggiore”
“io, te e...?”
temevo la sua risposta e temporeggiai una lunga sorsata alla mia birra, trattenendo il liquido un attimo in bocca. il gas mi pizzicava la lingua e mi grattava il palato.
Matteo attese il movimento ascendente e discendente del mio pronunciato pomo di adamo.
“galline”
il nostro anarchismo aveva forti connotazioni anticlericali. oltre la concezione marxiana. per noi la religione era la causa di tutti i mali. i moloch burocratici, gli stati erano la tecnologia cibernetica e la chiesa la ruota, gli ingranaggi primi. fondamentali. la parrocchia aveva un sagrato davanti ed era stata certo una deliberata scelta della curia introdurre i piccioni: animali fastidiosi e cacherecci che si mangiano tutto digerendo in, relativamente grossi, stronzi bianchi. bersagliando teste e vestiti. i piccioni erano certamente un elemento di polizia. nessuno rimaneva a cazzeggiare per le piazze davanti alle chiese più del tempo necessario, minacciato da attacchi aerei.
ora i piccioni albergano Piazza Maggiore a Bologna come Piazza S. Marco a Venezia. sono poi sempre più diffusi anche in ambienti laici. piazze prive di chiese come Trafalgar Square o passeggi dove la sola protezione è dagli assillanti dehors di bar e ristoranti, come lungo Las Ramblas. il risultato è che nessuno si siede più, si trova per necessità a muoversi continuamente.
“e nessun cartello vieta di nutrire i piccioni”, respirò, “e nessuno potrà quindi vietare alle nostre galline di affamare i piccioni, di vincerli, di conquistare la piazza”
la nostra birra numero tre ci fissava dal terzo di bicchiere che ancora riempiva. la ventola appesa al soffitto muoveva stanca l’aria calda con pale lucide e color ciliegio. il canale musicale riproponeva il solito cocktail di musica e culi. non reggevamo il bere, eravamo ubriachi. e, senza dubbio alcuno, dei geni.

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