lunedì 24 gennaio 2011

Moules et frites

È solo col tempo che si può dire che questo è stato veramente un bel periodo. È il tempo la misura delle nostra soggettività. È la storia che consacra una circostanza. Senza un racconto nessun evento per quanto eccezionale possa essere stato esiste veramente. Anche per Dio è così, infatti ogni religione ha un suo testo. Alcuni disponibili nello stesso numero di lingue in cui sono stati tradotti i romanzi di Ken Follett. Spesso con rilegature dai colori scuri e caratteri in oro od argento. Ma questo non c’entra niente. Era una introduzione.

Il senso è catturare l’attenzione e monopolizzarla. Il fine è che qualcuno si ricordi del suo passaggio. Ed in questo si sente molto vicino alle lumache che lasciano la bava. La questione è che questa non è una idea sua. Gli è stata suggerita in una notte dietro una cena grottesca a base di cozze e patatine fritte. Un suggerimento masticato da qualche romanzo che non si è curato di leggere ma sa che c’entra Kundera e la casa editrice Adelphi.
Allunga un paio di patatine con una birra ambrata bevuta dal suo calice griffato Leffe.
In tutto il ristorante ci sono solo loro due, un attempato turista sovrappeso in una camicia mezze maniche rosa ed il sorridente cameriere all’ingresso che saluta i passanti con i menù in mano.
La musica è in qualche lingua che non riconosce. Suona lenta e armoniosa che ha quasi il sapore dello sciroppo alla fragola. Quello vagamente alcolico che per farglielo bere da piccolo gli dicevano che era fatto con l’estratto del veleno dei serpenti. Gli avevano detto che con quello guariva subito e non si ammalava più. E lui aveva chiesto perché non ne davano un po’ anche alla mamma. E suo padre gli aveva dato un bacio sulla fronte e di spalle aveva detto: “ora è meglio che dormi, buonanotte”.
E nella sala l’odore è quello di una pescheria lavato con deodorante da bagno ma c’è quella candela rossa alta e accesa tra i loro occhi che si fa perdonare tutto.
E dice: “mi spiace vi abbiano trascinato qua”
Dice: “sono costernata”
Dice: “lo so che non potevo fare una fine peggiore”
E aggiunge: “ma vi prego, fatemi compagnia”
E lui sorride alla mano di Francesca che solo un mese fa non sapeva se avrebbe stretto ancora. E la mano lo accoglie timida come quando si deve rispondere ad una domanda che si conosce benissimo davanti a tutta la classe. Senza superbia, con poca coscienza di se. E unta di patatine fritte.
“Sai, questo posto è terribile”
“L’ho scelto per questo”
E la candela consuma una lacrima.
“Cosa stiamo facendo? Che cos’è questo? Cosa siamo? Quando tornerò a casa cosa dovrò pensare?”
“Non lo so”
“Così non mi aiuti”
“Vuoi che ti dia una mano a finire le patatine?”
“Coglione”
E si guardano. Lei è spostata in avanti. Gli avambracci puntellati al bordo del tavolo e le mani unite che sembra pregarlo. Con la candela davanti sembra davvero una madonna post moderna. Una figura etera e sottile piena di vita e di attenzioni per il mondo e poche per se.
Lui ha una patatina in bocca che sembra una caricatura di Paul Newman in qualche film dei Bellissimi di Retequattro.
“Potresti venire a stare da me o io da te”
“Già, e come la finisci l’università?”
“A distanza. Che importa, la vita è adesso”
“Tranquilla che ci sarà vita anche dopo”
“Ma non sarà questa” si lamenta lei con un sorriso che fatica a nascondere una triste consapevolezza.

Ed in effetti, non era quella.

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