lunedì 10 gennaio 2011

Ritardo

C’è questa complicità che posso rimanere seduto sul letto per ore senza che lei si infastidisca. Seduto sul letto a controllarmi i piedi ed a sfregarmi la faccia sperando di riavvolgere gli eventi. Di ringiovanirmi con un colpo di spugna come si fa con i piatti sporchi. Cerco il giorno prima e quello ancora e lei intanto è sdraiata su un fianco, così bianca che sembra illuminare quest’alba grigia e fango. Così vicina che devo sforzarmi di non guardarla. Concentrarmi su di me. Su quello che devo fare. E così sospiro controllando che l’orologio non corra troppo sorpassandomi nell’incertezza. E Carlo dentro di me è ancora ebbro di vita rubata nell’imitazione di un clichè da film. E vorrebbe chiamare qualcuno o almeno mandare un messaggio.
La frase che mi fa mimare con un filo di fiato è: “chissenefrega”.
Ed il mio alito ha l’odore che sa di notte inoltrata e si sposa perfettamente con questa mattinata che si avvicina rancida e claudicante. Vanno assieme biascicando una canzone in Sib cercando di scrollarsi il vino da dosso. E la domanda che si pongono è fatta con le parole di un bambino con pochi denti in bocca come loro. Si domandano se aprano prima le edicole o i bar.
Ecco che lei si muove. Sento le sue labbra staccarsi e sorridere alla mia schiena cesellata dalle vertebre che sporgono da sembrare la spina dorsale di uno di quei dinosauri colorati male e fatti in gomma puzzolente. La mia schiena le sembra la brutta imitazione made in Taiwan di una schiena granitica che la sostenga e le dia certezze. Non capisco proprio cosa ci trovi in me ed anche per questo non riesco a lasciarla. È quel nero che ha negli occhi quando mi guarda, quando la pupilla sembra allargarsi all’infinito lasciando solo una sottile luna azzurra eclissata ad avvolgermi. È lei con i suoi anni in meno ed i suoi sogni in più. E sono queste lenzuola rosse IKEA tanto brutte da farla sembrare ancora più impossibile.
“che cazzo ci faccio qui?” dice la voce della ragione con uno spessore inconsistente. Senza il minimo appeal e con una giacca taglia standard di Benetton consumata nei bottoni che non sa mai se allacciare o meno. Questioni di formalità che ancora non capisco. Eco di qualche consiglio per un posto di lavoro che poi ho avuto con una stretta di mano che sapeva di condanna a morte. Che sapeva della vita vera come la cena scaldata dentro ad un microonde Carrefour con la potenza massima per pochi minuti.
Bè io me ne sto ancora qui mentre i minuti passano pregando perché il mondo esploda lasciandomi in questo stato di grazia. Senza inferno o paradiso, né sguardi delusi o possibilità non colte, senza perdere tempo a pensare ai rimpianti, all’inutile ripassare quanto è stato unico il proprio battito di ali in Giappone, fregandosene delle conseguenze. In un film un personaggio se ne va dicendo: “francamente me ne infischio” e non riesco più a pensare ad altro. Constato che è passato un altro minuto senza che fondamentalmente succedesse niente. Quasi il silenzio denso dopo un incidente in auto.
La sento muovere una gamba, il lenzuolo le scivola sul fianco come la sabbia tra dita descritte con smalto rosso.
Mi domando: “ma cazzo non lo sente il freddo?” ma a lei dico solo: “è ora che vada” e la saluto con un cenno come in un film anni ‘50.
Poi arrivo in ufficio nuovamente in ritardo.

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