mercoledì 25 luglio 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 4)

Arturo, trovatosi di fronte a quel duello troppo latente per permettersi di pensare ad altre soluzioni, intervenne.
“Ragazzi, cosa sta succedendo qua?” fece con tono paterno e rassicurante da animatore dell’oratorio, con l'intento di non creare allarmismi che avrebbero potuto far degenerare la situazione.
Nessuno dei due duellanti si era accorto dell’intrusione in campo di quello spettatore prima di quelle parole. Con grande stupore per il Pizza e grande rammarico per il Torre, entrambe si voltarono ripettivamente alla propria destra e sinistra in direzione della voce.
Il Pizza, immediatamente, per la seconda volta in dieci minuti, si trovò ad immaginare che quello appena arrivato fosse il vero proprietario della macchina. Dopo qualche secondo di fredda lucidità osservò “no, non può essere il proprietario. Adesso nessuno sta toccando questa cazzo di auto... Ommadonna, vuoi vedere che è uno sbirro in borghese?!”, scongiurò.
Arturo, avvicinandosi lentamente con le mani a mezz'altezza, volutamente ben visibili dal Pizza, si posizionò in un punto formando il terzo vertice di un triangolo isoscele visibile dall'alto. Le loro ombre si allungavano alla sinistra di Arturo per un paio di metri.
“Che cazzo state combinando?” disse poi con tono da maestrino che rimprovera gli alunni.
Il Pizza, frastornato, rimase in silenzio. Non sapeva più a cosa pensare.
”Se questo non è il proprietario e nemmeno un poliziotto... allora chi è sto qua?” continuava a ripensare tra se senza trovare il bandolo della matassa.
“Questo voleva rubare la Delta!”, spiegò con tono colpevole il Torre. “Gli ho detto che è nostra! Ma la vuole lui”.
Seguirono alcuni istanti di silenzio in cui gli occhi di tutti e tre si incrociarono e si lanciarono occhiate incriminatorie.
Finalmente nella mente del Pizza la situazione cominciò a prendere logicità “se non è il proprietario e nemmeno un piedipiatti od un missionario, sta a vedere che questo faceva il palo allo stupido!”.
Il Pizza capì.
Arturo, con fare ora forense, passeggiando in asse, due passi a destra e due a sinistra, esordì arringando “ascolta, mi sembra di avere capito che a tutti noi interessi questo bolide...”.
I due annuirono silenziosamente seguendo i segmenti tracciati da Arturo.
“... Ora ti faccio una proposta! Noi volevamo la Delta solo fare una sgroppata col culo schiacciato su questa mandria imbizzarita e basta. Non ce ne facciamo un cazzo di una macchina che tra meno di 4 ore diventa incandescente come il sole...”.

Arturo ha sempre avuto la capacità di pararsi il culo in qualunque situazione. Questo dono gli ha permesso di arrivare a quarant’anni con poche denunce non penali alle spalle. Quando Arturo spiegava qualcosa nel 99% dei casi riusciva strappare consensi e conversioni. Avrebbe sicuramente avuto successo come commerciale se solo avesse intrapreso quella strada anzichè perdersi nel dedalo del crimine.

“... Se tu vuoi questa macchina, non c’è problema. Non abbiamo niente in contrario, anzi. Ce la lasci qualche ora, il tempo necessario per provare un pò di brividi, poi te la prendi, la porti dove ti pare e non ti fai più vedere!”, Arturo concluse mimando con le mani la fine.
Il Torre, con il suo faccione illuminato dalla luna e striato ad intervalli irregolari dal lampione moribondo, lasciava trasparire soddisfazione ed ammirazione nei confronti di Arturo. Il Torre era la corazza ed Arturo la ragione. Insieme erano una macchina da guerra oliata pronta a qualunque evenienza. Erano un carroarmato ben pilotato.
Il Pizza, esterefatto dal tipo di proposta, finse di pensarci qualche istante non lasciando trapelare alcuna emozione. In cuor suo, si sentiva soddisfatto ma non voleva dare subito la soddisfazione a quel tizio di accettare la proposta. “Nemmeno il rischio di perdere un dente od un occhio”.
Passarono alcuni secondi, poi, con un cenno verticale del viso accettò "ochei, ci sto!".

In pochi minuti, i tre avevano già aperto la macchina e, col motore acceso si erano presentati ed accordati sul da fare in seguito. Con qualche risata e pacca sulle spalle uscirono dal parcheggio a bordo della Delta HF Integrale Evoluzione pronti per correre un rally notturno. Poi, avrebbero consegnato l’auto nelle mani del Pizza.
Arturo al volante, il Torre al suo fianco lato passeggero ed il Pizza dietro si avviarono senza fretta verso la vicina campagna.
Imboccarono la prima strada bassa poco fuori città, quella che costeggiava il fiume.
Arturo fermò la macchina all'imbocco, dove finiva l'asfalto e cominciava lo sterrato. “Allora siamo d’accordo! Io faccio la prima mezz’ora, poi tocca a te” disse indicando il Torre, “e poi, se vuoi provi tu; altrimenti ci riporti in città e vai dove vuoi con la Delta!”. Erano tutti d’accordo e si strinsero le mani come impegno solenne.
Si allacciarono le cinture di sicurezza, Arturo regolò meglio il sedile alla sua stazza, accese tutti fari in dotazione al bolide e, in folle, cominciò a far salire di giri il motore.
WROOM. WWRROOOMM. WWWRRROOOOOOMMM.
Facendo tre volte pressione, sempre un pò più forte, sull’acceleratore si sentì il motore rispondere scuotendo nervosamente l’abitacolo come la centrifuga di una lavatrice. La terza volta che premette l’acceleratore, la lancetta del contagiri sfiorò i 5000 giri al minuti.
Pieno di adrenalina, Arturo era pronto a lasciare la frizione per dare inizio al rally. Ingranò la prima marcia. Lanciò un'occhiata d'intesa ai due e mollò la frizione di colpo. Si sentirono le quattro ruote motrici slittare all’unisono sulla ghiaietta fina della strada. Il motore salì velocemente di giri mentre l’auto si trovava ancora pressochè ferma nello stesso punto. Proprio come in un cortone animato, prima di muoversi passò qualche frazione di secondo interminabile in cui gli pneumatici cercavano disperatamente di fare presa su qualcosa. Quando tutti i più di 200 cavalli si sprigionarono scaricando tutta la loro forza sulla terra, l’impressione che provarono i tre a borbo fu simile a quella del decollo di un aereo. I corpi dei tre ragazzi furono schiacciati a forza contro gli schienali profondi ed ergonomici della Delta HF Integrale Evoluzione. I sassi impazziti, sparati a velocità incredibile dagli pneumatici, rimbalzavano sulla carrozzeria provocando rumori metallici fitti e secchi simili ai chicchi di grandine. Nell'abitacolo il rombo del motore montava sempre più dando l'impressione di averlo sotto il sedile. Arturo inserì rapidamente la seconda mentre il bolide inghiottiva già decine di metri alla volta e, solo per pura ingordigia, provò anche la terza. Il volante sotto la presa serrata di Arturo cercava di divincolarsi e disarcionargli le mani. Il grip che ricopriva il volante asciugava il sudore che l’agitazione di Arturo faceva sgorgare dai suoi palmi. Le vibrazioni aumentavano proporzionatamente alla velocità. Il rettilineo davanti a loro sembrava accorciarsi alla velocità della luce. Il manto sconnesso della stradina sommato alla reazione delle pronte sospensioni Mc Pherson, faceva sussultare l’abitacolo, mettendo qualche centimetro di vuoto tra il sedile ed il culo dei tre ragazzi, ogni qualvolta prendevano una buca. Quando le ruote si trovavano a girare a vuoto, il motore suggiva salendo di giri ed una volta riatterrati imprimeva una nuova accelerazione all'auto.

“Garda quanto facciamo, veloce, guarda a quanto siamo che devo mollare!” ordinò Arturo al Torre.
“Centoventi, centoventicinque, centotrenta, cazzo ma questa vola!” disse il Torre con una soddisfazione ingenuamente infantile.
Artuto non conosceva quella strada. Non la aveva mai percorsa. Sapeva però che il fiume in quella zona disegnava una abbondante S. Sapeva anche che quella su cui stavano correndo il loro rally era la strada dell’argine del fiume. Prima o poi si sarebbe aspettato la curva.
Al limitare della zona illuminata dalle due file sovrapposte di fari scorse, finalmente, l'attesa curva sulla destra. L’entità della curva gli era sconosciuta quanto la presa delle gomme in frenata sulla superficie scivolosa della ghiaia. Avrebbe potuto trattarsi di una curva di 100 gradi come di una di soli 40. Lo avrebbero scoperto nell'arco di pochi secondi.
Arturo impugnò la leva del cambio lasciando sul volante l’impronta di sudore della sua mano sinistra. Nessuno la notò. Mollò il pedale dell’acceleratore e con un rapido spostamento dei piedi, scalò in seconda imballando un pò il motore.
Con in corpo la sicurezza e l’esperienza di Miki Biasion fece una leggera pressione sul pedale centrale del freno cercando di non bloccare completamente le ruote. Il motore, appena Arturo rilasciò la frizione, ruggì come un leone facendo godere delle sue vibrazioni i tre ragazzi a bordo. Stavano provando un’esperienza che pochi ragazzi all’epoca avevano il privilegio di sperimentare.
Al giorno d’oggi basterebbe andare in un qualunque parco di divertimenti per provare sensazioni molto più estreme, paragonabili al decollo di uno Shuttle od alla decelerazione di una Formula Uno. Loro non lo avrebbero mai potuto immaginare e continuarono a godersi quel momento.
Man mano che i fari inghiottivano la strada, Arturo sentì montargli dentro un senso di impotenza che, più il bolide bruciava metri, più aumentava in lui. Quando la strada fu tutta illuminata, la gioia che fino a quel momento aveva pervaso gli animi di quei tre giovani e si poteva respirare dispersa nell’abitacolo, in un baleno scomparve lasciando spazio alla preoccupazione. La curva che dovevano affrontare era in realtà un gomito a meno di 90 gradi. Arturo dalla delicatezza con cui fino ad allora aveva accarezzato il pedale del freno, sgranando gli occhi, passò ad esercitare tutta la forza che aveva in corpo per cercare di fermare la corsa di quel cazzo di razzo a quattro ruote. Il Torre ed il Pizza, con la bocca spalancata non riuscirono ad emettere alcun grido, bloccati, non tanto dal senso del pudore quanto piuttosto dalla repentinità della situazione. Il terrore si era impossessato delle loro facce e, dentro di ognuno di loro, c’era spazio solo per la speranza.
La Delta HF Integrale, ad una velocità almeno tripla a quella massima consentita per affrontare una tale curva, slittò sulla ghiaietta scartando lateralmente come fosse un copertone di camion sul giaccio. Tutti e tre si appiattirono istintivamente al sedile cercando con le mani appigli che non trovavano. Lo stesso Arturo aveva mollato l’inutile volante puntellandosi con entrambe le mani al tetto dell’abitacolo.
La Lancia Delta HF Integrale impazzita e fuori da ogni controllo umano, carambolò prima in un campo e, senza ribaltarsi, urtò di striscio un pioppo centenario con la fiancata destra e finì la pazza corsa con un salto nel vuoto di almeno due o tre metri. La Delta HF Integrale Evoluzione atterrò, sulle ruote, in uno stagno quasi aciutto utilizzato per l’rrigazione.
Il colpo al momento dell’atterraggio fu secco e laterale seguito da un boato sordo. I fari, ancora accesi, illuminavano qualcosa di marrone indefinibile davanti a loro. Il vetro anteriore, crepato in diversi punti, era rigato da spruzzi di acqua melmosa verdognola. Nell’abitacolo cominciò ad entrare del fumo bianco e denso dai bocchettoni dell’aria. Avvolti da un’odore di zolfo misto plastica bruciata, i tre si ricomposero sui sedili. Si squadrarono senza dirsi nulla e in un baleno, slacciate le cinture di sicurezza, cercarono di aprire le portiere. Quelle di destra, ovvero la fiancata che aveva impattato il pioppo, erano bloccate. Appena Arturo aprì a fatica la sua, nell’abitacolo entrarono trenta centimetri di acqua putrida e puzzolente da far venire il volta stomaco. Non avevano tempo per schifarsi dell'acqua. Uscirono dall’abitacolo e, in un metro di fango e melma, si trascinarono sul bordo dello stagno mentre dall’abitacolo continuava a fuoriuscire del fumo denso e bianco che contrastava con il buio scuro della notte. Tutti e tre in fila, seduti con le gambe a penzoloni sul bordo dello stagno. Restarono in religioso silenzio una decina di minuti ad osservare la Lancia Delta HF Integrale fumare con i fanali ancora accesi, mezza sprofondata nella fanghiglia dello stagno.
Poi Arturo ruppe il silenzio “ma quanto cazzo corre quella macchina... dovrebbero vietarla!”.
Una risata collettiva e catartica segnò la fine della tragedia scrollando di dosso la paura dai giovani e consacrando quella cazzata ad essere raccontata come aneddoto divertente agli amici ed alle ragazze.

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 3)

Il primo incontro tra il Pizza, Arturo ed il Torre ebbe a dir poco dell’epico.
Il Torre ed Arturo conobbero il Pizza per la prima volta nel parcheggio di una discoteca della zona, dove, ignorando ciascuno l'identità dell'altro, si trovarono a contendersi una macchina da rubare. Tutti più o meno coetanei, con un pregresso più o meno simile, alle tre di quella stessa notte, vennero a conoscenza gli uni degli altri. L’auto contesa era un bellissimo modello di Lancia Delta HF 16 valvole Evoluzione a trazione Integrale da più di 200 cavalli. Era un gioiellino che riassumeva potenza e bellezza. Una bomba. La sola vista ne usciva appagata ancor prima di aver provato la bruciante accelerazione sciogliendo le briglia della mandria di cavalli che nitrivano sotto il cofano. Un insieme di linee secche e spigolose condite da bombature laterali che davano l’idea di contenere a fatica l’esuberanza della potenza del motore. Faceva gola a tutti quella super car italiana.
Al Pizza interessava per un motivo meramente economico; aveva una commissione. La consegna dell’auto al ricettatore gli sarebbe fruttata la bellezza di 2 milioni di lire. Una cifra stratosferica per mezz’ora di lavoro in tutta sicurezza. Gli era capitata una vera occasione. Con quella cifra un ventenne come il Pizza aveva le idee ben chiare sul da farsi: qualche mese da nababbo tra lussi e donne.
Il Torre ed Arturo invece, volevano semplicemente togliersi lo sfizio di provare il brivido di pilotare il miglior stallone a quattro ruote sul mercato, in un improvvisato rally notturno nella campagna della bassa. Solo il brivido di sfrecciare a più di 100 chilometri all’ora per le stradine sterrate vicine all’argine del fiume, li scuoteva e li eccitava come bambini davanti ad un flipper. In tutto un’oretta di vero svago adrenalinico, niente di più.

“Ehi tu! Che cazzo stai facendo?” disse il Torre indicando il Pizza che, accovacciato accanto alla macchina, con un cacciavite in mano stava cercando di forzare la serratura del lato passeggero.
Il Pizza, temendo di essere stato beccato in flagrante dal proprietario, irrigidì i muscoli del corpo e con uno scatto violento si sollevò.
“Ehi capo, dov’è il problema? Non sto facendo nulla di male. È che nel pisciare ho perso le chiavi della mia macchina e le sto cercando!”, fu quanto in quattro e quattr’otto riuscì ad arrabattare il Pizza con una prontezza di parola tale da dissimulare il suo reale stato d’agitazione. Dentro di se il cuore pulsava talmente forte che lo sentiva spingergli il sangue sino in bocca. Improvvisamente sentì il bisogno di respirare più ossigeno e la respirazione si fece più profonda ed affannata. Il petto si gonfiava sotto la maglia e subito dopo si svuotava facendo vibrare le narici come fossero le froge di un cavallo affannato. Cercò di placare il tremore che nel frattempo aveva cominciato a manifestarsi impadronendosi dei suoi arti superiori. Una leggera forma temporanea di Parkinson che avrebbe potuto compromettere la sua fermezza.
“Sarà meglio per te!” continuò il Torre minaccioso distogliendo l'attenzione del Pizza dal tremore.
“Perchè questa macchina l’ho vista prima io e se non vuoi finire nel tuo pisco a cercare oltre alle chiavi anche i tuoi denti, farai meglio ad andare a scegliertene un’altra. Capito?”. Il Torre era in gamba sotto tutti gli aspetti, peccava solo in quanto a sufficienza e modestia. Questo non gli facilitò di certo in nessun caso la vita, soprattutto quando si trovò di fronte un suo clone.
Una volta capito che quell’essere enorme che il Pizza si trovava davanti altro non era che un suo concorrente, un ladro d’auto proprio come lui, il sangue cominciò a rallentare ed il tremore si placò lasciando un velo di gelido sudore sulla fronte e nell'incavo della spina dorsale. Riacquistò velocemente sicurezza e fermezza. Un senso di rilassamento lo pervase da capo a piedi e, con sangue freddo, serrando bene la mano attorno al manico del cacciavite appiattito lungo la coscia destra, gli annunciò “mi spiace per te amico! Ma questa l’ho vista prima io! Quindi chi deve levare i tacchi sei proprio tu! Guarda” aggiunse indicando con la mano sinistra, in un movimento a ventaglio da destra a sinistra, l’intera ampiezza del parcheggio “ne hai quante ne vuoi, qui, di macchine”.
L’affronto non fu gradito dal Torre. Nessuno poteva rivolgersi al Torre in quel modo. Il Torre possedeva uno dei ganci più potenti della provincia e forse dell’intera regione. Dopo anni ed anni di scazzottate, ormai non gli serviva nemmeno più dimostrare la sua superiorità fisica sugli altri. Si era già conquistato il rispetto ed ora tutti lo conoscevano evitando accuratamente di provare la forza del suo destro. Le dita del Torre automaticamente, senza alcuna volontà, presero ad accartocciarsi come canne mosse dal vento. Chiunque lo conoscesse un minimo sapeva leggere in quella mossa un preludio di polvere, sangue e denti rotti. “E questo coglione chiccazzo è per rivolgersi a me in questo modo?”, chiese al suo cervello. Ricordandosi del supporto che la chiave inglese infilata nella cintola dei pantaloni poteva offrirgli in caso di pericolo, il Torre, convinto comunque che non ne avrebbe avuto bisogno, si diresse lentamente, mettendo un oasso davanti all'altro, verso quel ladruncolo irriverente del cazzo. Fisicamente il Torre non si lasciò intimorire dalla stazza di quel cazzone, peraltro inferiore alla sua. Nonostante il chiarore della luna facesse luccicare qualcosa che avrebbe potuto essere un coltello od un cacciavite, nella mano destra di quel tizio, il Torre continuò ad avanzare fissandolo dritto negli occhi cercando di leggere le sue intenzioni. Come due predatori, si studiavano a vicenda riproponendo le stesse mosse e le stesse espressioni. Sembrava quasi che dei due solo uno fosse quello vero e l'altro niente più di una semplice immagine riflessa da uno specchio.
Arturo, che nel frattempo stava di gardia sul viale che porta alla discoteca attento che non sopraggiungesse nessuno, sentendo quell’attaccabrighe del Torre parlare ad alta voce e con tono abbastanza minaccioso, conoscendo bene il suo carattere, si insospettì.
“E adesso cosa gli è saltato in mente a quel decerebrato?” pensò mentre si incamminava con un buon passo nella direzione dalla quale provenivano le voci.
Quando Arturo arrivò in corrispondenza della Delta HF Integrale Evoluzione, si trovò davanti una scena degna di essere diretta da Sergio Leone in persona.
Un refolo di vento alzava una nuvoletta di polvere dal suolo sterrato del parcheggio, dissolvendola a mezz’altezza nell'aria. La luna, quella notte luminosa, dall’alto, inondava con i suoi raggi decisi e caldi tutto quello le stava sotto, compresi quei due pazzi mitomani e la Delta HF Integrale Evoluzione. In lontananza, i decibel delle casse dalla discoteca, creavano un sottofondo di dance music un pò fuori tema. Qualche uccello notturno, probabilmente un pipistrello o forse una civetta, lanciava fischi minacciosi e funerei che rompevano la monotonia delle note dance diffuse dalla discoteca. Un faro che, lampeggiando minacciava di fulminarsi a breve, lanciava psichedeliche vampate di luce sui due individui. Il Torre aveva a pochi passi, tre o quattro al massimo, dal suo destro il naso di un altro ragazzo che in pugno, di tutta risposta, lambiva minaccioso un cacciavite di almeno 25 centimetri. Se quel cacciavite avesse penetrato la pelle del Torre, molti meno centimetri sarebbero bastati per spedirlo all'altro mondo. L'adrenalina, in quei due corpi stava diminuendo vertiginosamente la loro capacità di valutare i rischi. Arturo, nella sua lungimiranza, capì che, se avesse tardato di qualche secondo il suo intervento, probabilmente qualcuno si sarebbe fatto male ma, certamente, qualcun’altro sarebbe morto. Il suo intervento sembrava richiesto dall’alto, dalla regia o da una voce fuori campo. “Arturo, fai qualcosa al più presto! Prima che quel pazzoide del Torre ceda alla ghiotta tentazione di spappolare il naso e la mascella di quell’incoscente che gli sta davanti”, si impose. Dallo sguardo che Arturo lesse sulla faccia livida del Torre capì che ormai era questione di secondi. Sarebbe bastata una mosca per far scatenare un putiferio e sporcare di rosso la terra del parcheggio impregnandola di sangue.

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 2)

Il Pizza avrebbe dovuto procurare la macchina ariete, “solida e robusta”. Avevano deciso che sarebbe dovuta essere “una di quelle con la carrozzeria tosta ed il motre di un trattore, tipo una Mercedes 200 degli anni ’90, una di quelle che anche se te la rubano non ti cambia la vita”, aveva detto il Torre. Con quelle parole il Torre non cercava un'attenuante al furto cui addurre una volta giunto al cospetto del Signore quanto piuttosto un vantaggio in termini di tempo. La denuncia avrebbe, probabilmente, tardato ad arrivare alla polizia giusto quella manciata di minuti che si sarebbero rivelati preziosissimi nell'economia del colpo.

Arturo aveva conosciuto il Torre ai tempi del primo riformatorio. Il loro primo incontro rimase scolpito nella memoria di Arturo come la data del suo compleanno. Il Torre finì dentro per aver taccheggiato, per diverse settimane consecutive, lo stesso minimarket del suo quartiere. Aveva cominciato rubando poca roba, due o tre confezioni di caramelle. Poi man mano che il gioco si faceva troppo semplice, alla necessità delle caramelle si sostituì quella di sfidare la sorte. Il primo motivo che lo mosse ai successivi furti fu il bisogno di appagamento che solo una scarica intensa di adrenalina sapeva regalare. L'azzardo del mettersi in competizione con la sorte. La sfida lanciata al destino lo faceva sentire grande, potente donandogli l'inpagabile sensazione di superiorità rispetto agli altri esseri umani. Dunque cominciò a sgraffignare anche oggetti dei quali, una volta fuori dal market, smaltita l'eccitazione e placato il brivido per aver violato un comandamento con la sua sola abilità, se ne sbarazzava gettandola nella spazzatura o regalandola ai suoi amici. Penne, quaderni, confezioni di caffè in chicchi, fazzoletti di carta ed altre futilità erano le preferite dal Torre. In preda al bisogno di osare sempre un pò più della volta precedente, un giorno, mentre il commesso era distratto ad asciugare l’olio di una bottiglia rotta, il Torre si avvicinò al registratore di cassa lasciato incostudito. Come prima cosa cercò invano di aprire il cassetto schiacciando a caso alcuni pulsanti della tastiera. Il cassetto non si aprì ma in compenso il registratore si mise a fischiare fastidiosamente. Allora il commesso, richiamato dal sibilo proveniente dalla sua postazione di cassa, voltò lo sguardo e vide il Torre che armeggiava attorno alla macchina. I loro sguardi si incrociarono. Il Torre vide lo stupore e la preoccupazione per quanto stava accadendo riflessa negli occhi del commesso. Il commesso invece si scontrò con uno sguardo felino che diffondeva un senso di sfida e consapevolezza della propria superiorità. Il Torre in un attimo, inpotente di fronte alla combinazione per aprire il cassetto delle banconote, prese l’intero registratore sotto braccio e si lanciò in uno scatto verso l’uscita. La fuga fu breve. Il filo di alimentazione del registratore non era più lungo di un metro e mezzo, ovvero, quei 2 o 3 secondi in cui il Torre credette di farcela. Quando il filo si tese al massimo della sua estenzione, il Torre, lanciato in corsa, d’un tratto avvertì uno strappo in tutto il suo fianco sinistro del corpo seguito da un immediato dolore lancinante. Il registratore ed il Torre si ritrovarono entrambe stesi sul pavimento in linoleum uno di fianco all'altro.

Il Torre era orfano di padre e, quella che avrebbe dovuto avere come madre, era in realtà solo 12 anni più vecchia di lui. Appena nato, sua madre decise di affidarlo alle cure dell’Istituto Antoniano Rogazionisti, dove crebbe rigoglioso ed ebbe modo di prepararsi al riformatorio. Il Torre, al secolo Anselmo, era il classico esempio di ragazzo “difficile”. Alla ragione ed alle discussioni, supportato da una natura clemente che a 13 anni lo dotò di 1 metro e 80 di statura, preferiva la violenza e spesso la prepotenza. Gli piaceva essere rispettato ed onorato da tutti i suoi compagni di sventura e ci riusciva a suon di scazzottate.

Il Torre, era incaricato di trovare il mezzo adatto alla fuga. Una macchina veloce, resistente e che non desse troppo nell’occhio. “Ci serve una BMW X5, una di quelle che nemmeno dio in mezzo alla strada riuscirebbe a fermare”, sentenziò il Pizza, “oppure una piccola scheggia del tipo Golf GT”, concluse.
“Senti, ma se tu sei così bravo ed hai le idee così chiare perchè non ci vai tu a rubarne una”, disse il Torre indicando con un indice inquisitoriamente teso il Pizza.
“Perchè? cosa credi? che rubare un carrettone di vent’anni sia più semplice? Torre, beato tu che non capisci proprio un cazzo...” ruggì con fare denigratorio.
Il Torre non lo lasciò nemmeno finire la frase che, con un tono della voce minaccioso come il cielo di autunno, coprì la voce del Pizza con “sai cosa ti dico! Che mi hai rotto le palle! e che se sei tanto bravo, fallo da solo il colpo e vaffanculo!”. L’ultima parte il Torre la ringhiò nervosamente in faccia al Pizza condendola con piccole goccie di saliva che nella foga andarono ad imperlare il tavolo della cucina di Arturo.
Il clima si stava scaldando troppo e, se è vero che due stupidi non ne fanno uno intelligente, Arturo si premurò di mettere fine alla diatriba con il suo potere carismatico. “Ehi ehi, ragazzi. Che cazzo vi succede. Tutti siamo nervosi, ochei, ma litigare per delle stronzate come queste è l’ultima cosa che ci serve. Ora mettiamoci tranquilli ed ognuno di noi faccia quello che sa di dover fare senza interferire con gli affari degli altri. Sono stato abbastanza chiaro?” domando retoricamente.

Mancavano due giorni al colpo e da quel momento Arturo aveva deciso “da ora al momento del colpo, nessuno di noi e per nessun motivo al mondo deve comunicare con gli altri. Intesi? Da adesso si comincia a giocare... quindi basta cazzate!"

Il Pizza non era cresciuto in orfanotrofio e non era mai entrato in riformatorio pur essendo orfano dei genitori e delinquente fin dalla nascita. La condizionale l’aveva sprecata di recente a causa di troppo leggerezze in piccole cose, ed ora, con gli altri, era alla ricerca del posto che gli spettava in società ma che, fino a quel momento, gli era sempre stato negato. Il Pizza, sino ai 16 anni di età, era cresciuto con la “sorella della madre” fervente cattolica, che però non ha mai chiamato zia, dopodichè, una mattina prese armi e bagagli e senza salutare o dir nulla a nessuno, cercò la sua strada. Se l’era sempre cavata in qualche modo. Spesso la fortuna lo aveva tenuto stretto accanto a se. Di espedienti ne conosceva in abbondanza. Sosteneva di essere un “self made man” nel senso che Si era fatto uomo da solo, senza aiuto e senza aver mai avuto qualcuno che gli tendesse una mano. Era molto orgoglioso della sua vita trascorsa e non accettava osservazioni o consigli da nessuno. Anzi, lo facevano prorio incazzare, “non ho mai avuto una madre che mi dicesse quello che dovevo fare e questo stronzo cosa fa? Vuol cominciare adesso senza essere nemmeno lontanamente simile a mia madre...”, era quello che vomitava addosso, rabbioso come un cane randagio, a chiunque ci provasse.

martedì 24 luglio 2007

Il colpo di Arturo, Torre e Pizza (parte 1)

La prospettiva per quella mattina non era delle più felici.
Un cielo color d’ottobre andino in una giornata di maggio padano era, a dir poco, fuori luogo come una confezione di panettone a Ferragosto in riva ad un affollato mare melmosamente torbido.
Dieci ore di ovattato sonno erano proprio quello che gli sarebbe servito, così come una donna, una macchina nuova ed un cane anche in ordine diverso. La sera precedente era uscito di casa con il proposito di bere un goccetto prima di abbandonarsi alle lenzuola ruvide di un letto sempre troppo spazioso.

Erano troppi anni ormai che conduceva una vita zoppicante, incerta, da poco, in saldo; proprio una di quelle vite che nessuno vorrebbe nemmeno regalata. La sua carrozzeria, all’alba dei quarant’anni, cominciava a mostrare segni di ruggine su ogni superficie ed il suo viso in particolare era sempre più segnato da lunghi solchi che lo tagliavano in lungo e in largo come graffi traccitai da un teppistello quattordicenne con la chiave del motorino. Le sue rughe erano ormai come certe grondaie ossidate e scure che si sporgono dalle facciate di qualche palazzo che visse tempi sicuramente migliori. Troppe erano state le notti trascorse parcheggiato sul trespolo ammuffito di un bar umido o quelle dimenticato lungo strade fredde e sporche.

Tutto era pronto. Tutto era stato minuziosamente programmato. Ogni eventualità vagliata. Si sarebbe trattato di provare, per l’ultima volta prima di un meritato ritiro dal crimine, quell’adrenalina e quello stato di agitazione che provò per la prima volta ventisei anni prima.

In quella circostanza, era entrato in un'edicola del centro per comprare, con i pochi spiccioli raccimolati nelle tasche della borsa di sua madre, un fumetto. Arturo era un fan sfegatato dei supereroi ed in prima fila, tra i suoi preferiti, alloggiava il grande Spiderman. Quel pomeriggio, una volta arrivato dinnanzi alla cassa dell’edicola, Arturo aveva, davanti a se, due persone in coda per pagare. In quell’attesa un qualcosa che solo successivamente descrisse improvviso come "il cane che picchia sul tamburo", scattò in lui. Un senso di frizzante benessere gli pervase d’un tratto il corpo. La mente prese a correre all’impazzata fantasticando su cosa sarebbe riuscito a comprare con quelle poche Lire risparmiate non pagando l’albo di Spiderman. Probabilmente sarebbe riuscito a prendere un gelato oppure un bel sacchetto di caramelle oppure un altro albo, magari quello di Hulk. Nei suoi occhi sgranati si rifletteva la luce asettica del neon sopra la cassa e nelle sue orecchie il brusio della città rimbombava prepotentemente. Tra le mani teneva un fumetto che aveva come protagonista un ragazzo all’apparenza del tutto normale, per non dire addirittura un pò sfigato, che nascondeva però dei superpoteri. Solo lui ed i suoi nemici lo sapevano. Quel ragazzo, un pò, lo disturbava e gli creava un senso di incomprensione. Lui, giovane, che con i suoi poteri avrebbe potuto fare tutto quello che avesse desiderato, nella vita comune, invece, passava sempre come quello più imbranato. Questo Arturo non lo condivideva. Da tempo pensava alla possibilità di incontrare per strada qualcuno che, insospettabilmente, sotto gli abiti civili, normali, celasse in realtà un'agilità da insetto, un'abilità da ninjia ed una forza mostruosa. “Magari anch’io possiedo dei superpoteri e non lo so, ma se trovassi il modo per utilizzarli farei…” e spesso si perdeva per ore a fantasticare su cosa avrebbe fatto, chi sarebbe diventato e via discorrendo.
Il sudore, in rivoli, cominciò a solleticargli la schiena ed il costato. I palmi delle mani erano scivolosi e freddi. Tutto d’un tratto, non rispondendo più agli impulsi volontariamente impartiti dal cervello al corpo, con una mossa tanto veloce quanto sospetta, con la mano sollevò la parte bassa della maglietta bianca dei mondiali ed adagiò, aderente all’addome umido, la copertina del fumetto. Nessuno pareva averlo notato. Ora aveva davanti a se solo una signora intenta a cercare le monetine per pagare la copia di Famiglia Cristiana e dell’Avvenire. Sempre guidato da una forza a lui estranea, Arturo con una camminata innaturale e con i lineamenti del volto tesi, si diresse verso l’uscita scansando la signora e, senza pagare, si buttò nel Corso. Man mano che si allontanava dall’edicola, dentro di lui, quel senso di appagamento e di benessere che solo negli anni successivi imparò a procurarsi, montò sino a raggiungere livelli mai provati prima. Non si voltò mai a guardare dietro di se ma il suo orecchio, per qualche decina di metri ancora, restò teso nel tentativo di percepire il benchè minimo segnale di allarme. Le gambe erano dure e cariche di dinamite. A qualunque avvisaglia di pericolo, Arturo avrebbe acceso la miccia e si sarebbe lanciato in una corsa supopersonica lasciando la gente esterefatta e gli inseguitori con un pugno di polvere.
Ormai era lontano dall’edicola, abbandonò il Corso per imboccare un viottolo più isolato e meno affollato sulla sinistra. Sul suo viso si delineò un sorriso compiaciuto e complice di se setesso. L’adrenalina, ormai raggiunto il livello massimo, lo fece sentire invincibile, unico, mitico, eroico. Quando la sua esaltazione accennò a diminuire, avvertì il bisogno di gustarsi tutto il piacere della refurtiva. Camminando verso i girdinetti, dentro di se si ripeteva “sono un ladro, ho rubato e non se ne è accorto nessuno. Sono il migliore...” ed in un crescendo di autocelebrazione, inconsapevolmente fece ingresso nel variopinto mondo dell’azzardo votandosi al crimine.

Il tutto si sarebbe svolto in tutta tranquillità in una manciata di ore.
Adesso si trattava solo di attendere che il tempo facesse il suo corso con la stessa continuità e costanza tenuta sino a quel momento. Doveva rilassarsi e liberare la propria mente. Sulla testa avvertiva tutto il peso dell'importanza di quanto stava per accadere.
"Faber est suae quisque fortunae" si ripeteva meccanicamente ignorandone il concetto più profondo.

mercoledì 18 luglio 2007

Jim Morrison, Dean Moriarty e Arturo

Jim Morrison, tutti sanno chi è.
Neal Cassady, un pò meno (paradossalmente i più lo conoscono come il grande Dean Moriarty).
Arturo, quasi nessuno lo conosce.

Arturo, tra i tre, è l’unico che potete, ancora oggi, incontrare per strada od al pub. Quindi affrettatevi.

Ho sempre vissuto all’ultimo piano delle case o dei palazzi in cui ho abitato. Ho sempre sofferto un caldo boia d’estate. Mi sono sempre lamentato delle almeno 14 rampe di scale quando non c’era l’ascensore.
Oggi sono nella mia nuova casa (la 4° in due anni). Abito al sesto piano di un palazzo di sei piani senza ascensore. Anche stavolta è l’ultimo. La domanda mi sorge spontanea nonostante faccia di tutto per soffocarla col proprio cordone ombelicale e farla passare per una semplice e tragica “morte bianca”. Ha la meglio lei, come sempre.
“Ma sono masochista/coglione o non mi fido del mio istinto?”.
L’unica cosa che so è che una volta, quando mi si proponeva una scelta tra A e B, la decisione che travagliatamente prendevo, alla fine, si rivelava essere sempre o la più difficile da percorrere o la più sbagliata. Col tempo ho imparato a pensare ed a scegliere. Come uno che ha l’orologio avanti di 7 minuti e lo sa. Arriverà sempre e comunque in orario, ammesso che lo voglia. Quindi tirando le somma, se il mio istinto sembra spingermi verso l’appartamento del 2° piano piuttosto che quello del 6°, senza pensarci una volta di troppo, nuoto salmonescamente controcorrente e propendo per la scelta che meno mi ispira confidando di aver preso la decisione migliore. Ancora non mi sono pienamente convinto ma nel dubbio, persevero.

Leggere mi fa venire sonno ma mi piace. Per fortuna anche dormire mi piace. Ovunque, proprio come leggere.

Ieri mi sono svegliato in una sindone di sudore ed in preda ad un miraggio. Per il caldo che arroventava la mia camera in particolare, sono certo che non si trattasse di un sogno bensì di un vero e proprio miraggio. Il caldo di questi giorni si è fatto largo a gomitate nella mia vita e saltando la lunga coda di impegni che avevo, mi si è piazzato davanti insistentemente in prima fila come un abbonato Rai. Nell’arco della giornata non riesco più a pensare ad altro che esuli dal “come sconfiggere o almeno sopportare il caldo”. Niente più sogni erotici la notte, meno birra durante la giornata, spossatezza e secchezza delle fauci. Se stessi assumendo farmaci potrebbe non essere altro che un semplice effetto collaterale od una mia intolleranza alla sostanza. Basterebbe smettere di prenderlo e tutto svanirebbe in pochissimo tempo, come la nebbia in luglio alle 5 di mattina.
Il senso di impotenza che il caldo mi infonde genera automaticamente insicurezza in qualunque cosa faccia, e se non l’ho ancora fatta, mi toglie addirittura la voglia di cominciare. Cercando il lato positivo di questa tragicomica situazione, potrei almeno dire che, da quando si muore di caldo, non lascio più nulla di incompiuto.
Ieri mattina, fradicio come un presentatore in frac sotto i riflettori in uno studio televisivo, avevo un solo unico desiderio talmente bramato da assurgere al ruolo di vera e propria necessità.
Dovevo assolutamente bere.
Lucido come mai mi capita di esserlo appena sveglio, con una razionalità che sfiorava l’assoluto, mi sono precipitato, evitando gli occhiali accanto al letto che in altre circostanze avrei sicuramente schiaccito –ed a piedi nudi, spiace, certo per gli occhiali, ma anche per la propria incolumità-, in direzione della cucina. Ho percorso a velocità sostenuta il corridoio in penombra, saltato l’infingardo scalino che per la monocromia del klinker si rende impercettibile ed in derapata a sinistra mi sono immesso in cucina. Quando sono talmente vicino al raggiungimento di un obiettivo, spesso mi capita di assaporare già il piacere della soddisfazione ancor prima di averlo fatto, abbandonando la dedizione. Ieri mattina tenevo la leva del frigorifero stretta nel palmo della mia mano destra viscida e, pavlovianamente, l’arsura alla gola, il caldo insopportabile ed il sudore bollente che mi ricopriva il corpo, altro non erano che un lontano ricordo, solo una sensazione da tempo lasciata alle spalle. Un brutto ricordo che, con la stessa velocità con cui lo avevo lasciato, nel medesimo istante mi si è fiondato addosso con una intensità almeno quadruplicata quando, aperta la porta del frigo, l’unica cosa liquida che riuscivo a vedere era la salsa scura ed oleosa di soia. Non nascondo che, lì per lì, in un nanosecondo, mi è balucinata l’idea –che si sarebbe sicuramente rivelata mortale- di dargli un sorso. Con la stessa ascetica difficoltà con cui un uomo vivo ed eterosessuale riesce a trattenersi dall’espletare un bisogno tanto primario quanto per l’appunto bere, ho cacciato dalla mia mente con una tale fermezza che mai avrei creduto di possedere, l’idea di dissetarmi con salsa di soia. In quella situazione tragicissima che non auguro a nessuno se non per scopi scientifici, ho cominciato a perdere sicurezza in me stesso. La mia prima reazione alla visione del frigorifero vuoto non è stata accettare l’oggettività della situazione bensì mettere automaticamente in dubbio la capacità del senso che mi impedeva di vedere la bottiglia dell’acqua: per l’appunto la vista. Era talmente tragico e sconcertante quello che stavo vedendo che inconsapevolmente lo spirito di sopravvivenza mi ha spinto a soccorrere la vista deficitaria con la concreta obiettività del tatto. Con le mani che si muovevano fuori dal mio controllo, in spasmodiche roteazioni ed affondi, stavo man mano perdendo fiducia anche in quest’ultimo senso. Me ne restavano solo altri tre. L’olfatto, il gusto e l’udito, purtroppo, non mi sarebbero potuti essere d’aiuto in alcun modo. Senza vagliare altre possibili soluzioni, ho cacciato spontaneamente un urlo animalesco che, con la bocca impastata reduce dal sonno, aggiungeva ancor più inutilità alla tragedia. “Cazzo, l’acquaaaaaaaa!”. In una serie talmente ravvicinata da poter sembrare sincronizzata, frutto di mesi e mesi di allenamento e rinunce, ho avvertito il classico ed inconfondibile rumore delle doghe in legno su struttura in ferro dei letti IKEA dei miei coinquilini, scricchiolare. Poi, quasi all’unisono, hanno risposto alla mia non domanda
“è finita”.
Subito mi è venuto spontaneo pensare “e se invece di esserci io, qui a morire di sete, ci fosse uno di quegli stronzi, mi sarei alzato per supportarli nella condivisione del dolore o magari, addirittura, mi sarei offerto di andare a prenderla?”. La risposta che automaticamente e quasi marzullianamente mi ha fatto eco nalla testa è stato un triste e secco
“NO!”
Nonostante questo ho pensato ugualmente
“che coinquilini stronzi che mi ritrovo”.

Questo è quanto avrei potuto risparmiarvi in quanto pertiene marginalmente alla riuscita della storia. Ma, essendo ancora incazzato con i miei coinquilini, mi sfogo con voi proseguendo.

Ieri mattina, appena recuperate le forze necessarie per mettere in moto un’azione fisica del tipo andare-alla-PAM-a-prendere-una-cassa-d’acqua, e tutto quanto si cela dietro –vestirsi e prendere i soldi-, mi sono fiondato a rotta di collo giù per le scale arroventate del palazzo in preda ad una vera e propria crisi di astinenza dal vita.
Fortunatamente la PAM si erge, nel suo inconfondibile stabile verde, l’isolato dietro il mio. Le strade sporche e deserte con il cielo azzurro e silenzioso creavano uno stato di irrealtà tale da spingermi a guardare l’orologio in cerca di qualche certezza o conferma.
8.35.
"Già, è agosto" ho pensato "ed alle 8.35 sono pochi gli sfortunati in giro per una città arroventata. È normale".
Con questo pensiero, per una seconda volta in pochi minuti, quando ormai davanti ai miei occhi vedevo la sagoma con il rassicurante verde della PAM –"solo ora capisco perchè il verde sia un colore che abbonda negli ospedali: infonde speranza"- cominciavo già a provare la sensazione di benessere autoindotto che, memore della precedente esperienza, in tutti i modi, cercavo di combattere. Ormai pochi passi mi separavano dalla porta d’ingresso a vetri scorrevoli ed in quel momento ho ceduto alla tentazione troppo forte di sentirmi appagato e paradossalmente rilassato. Quasi provavo la stessa sensazione che, solo un’altra volta nelle mia vita, mi era capitato di sperimentare. La prima volta che, dopo essermi iscritto all’AVIS, ho donato sangue, dopo che l’infermiera mi ha infilato l’ago nella vena, probabilmente per la mia suggestione nei confronti degli aghi, una dolce leggerezza ristoratrice mi ha pervaso il corpo qualche attimo prima che mi abbandonassi ad una estatica perdita dei sensi.
Giunto davanti alla porta, come Alì Babà se, davanti alla roccia, avesse sbagliato la frase magica, nulla succedeva. La porta davanti a me opponeva una inspiegabile resistenza. Non voleva aprirsi. Mentre dentro mi stava montando un senso di malessere otto volte più acuto del precedente, come un circense bulgaro od un mimo da strada, facevo mille mosse davanti alla fotocellula cercando forse di commuoverla ma inspiegabilmente non voleva cedermi il passo. Il mio malessere montava come la maionese impazzita e si diffondeva in ogni meandro del mio corpo. Il pizzichìo alle punte delle dita, indistintamente di piedi e mani, saliva man mano, rispettivamente per gambe e braccia. Il sudore improvvisamente si arrestava per lasciare spazio ad una sensazione mortale di aridità alla pelle. Il tutto era condito da un senso di leggerezza che mi pervadeva pian piano che il formichìo passava...

Mi sono svegliato pochi minuti dopo, seduto su uno sgabello al bancone di un bar con in bocca un sapore amaro e familiare. Il buio la faceva da padrone sulle poche luci accese e soffuse dietro al bancone.
“Merda, stavolta l’abbiamo presa pesante!” mi dice una voce familiare quanto l’amaro che avevo in bocca.
Con la testa appoggiata, i miei occhi, in verticale sul mondo, vedevano un bicchiere quasi vuoto messo in orizzontale con uno sfondo sfuocato in cui si riconosceva solo la faccia di Arturo.
“hai dormito quasi due ore che credevo fossi morto” si trascinava dietro le parole come un bue stanco un aratro.
“spero non ti sia offeso se ti ho finito la birra, sai, si sarebbe scaldata e sgassata”. In effetti sarebbe stato uno spreco.
Di sottofondo frusciava una versione mal registrata, sicuramente su cassetta, di Shaman's Blues dei Doors
"Will you give another chance?
Will you try a little try?
Please stop and you'll remember
We were together
Aanyway..."

Con grandi difficoltà di equilibrio e dei nervi del collo ho raddrizzato il capo e dietro il muso del Giec, il barista, campeggiava, in un bella grafia palesemente femminile, la trascrizione del pezzo migliore di On the Road
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
”Dove andiamo?”
”Non lo so, ma dobbiamo andare”.


Ho capito dove ero e mi sono trascinato a casa.