mercoledì 18 luglio 2007

Jim Morrison, Dean Moriarty e Arturo

Jim Morrison, tutti sanno chi è.
Neal Cassady, un pò meno (paradossalmente i più lo conoscono come il grande Dean Moriarty).
Arturo, quasi nessuno lo conosce.

Arturo, tra i tre, è l’unico che potete, ancora oggi, incontrare per strada od al pub. Quindi affrettatevi.

Ho sempre vissuto all’ultimo piano delle case o dei palazzi in cui ho abitato. Ho sempre sofferto un caldo boia d’estate. Mi sono sempre lamentato delle almeno 14 rampe di scale quando non c’era l’ascensore.
Oggi sono nella mia nuova casa (la 4° in due anni). Abito al sesto piano di un palazzo di sei piani senza ascensore. Anche stavolta è l’ultimo. La domanda mi sorge spontanea nonostante faccia di tutto per soffocarla col proprio cordone ombelicale e farla passare per una semplice e tragica “morte bianca”. Ha la meglio lei, come sempre.
“Ma sono masochista/coglione o non mi fido del mio istinto?”.
L’unica cosa che so è che una volta, quando mi si proponeva una scelta tra A e B, la decisione che travagliatamente prendevo, alla fine, si rivelava essere sempre o la più difficile da percorrere o la più sbagliata. Col tempo ho imparato a pensare ed a scegliere. Come uno che ha l’orologio avanti di 7 minuti e lo sa. Arriverà sempre e comunque in orario, ammesso che lo voglia. Quindi tirando le somma, se il mio istinto sembra spingermi verso l’appartamento del 2° piano piuttosto che quello del 6°, senza pensarci una volta di troppo, nuoto salmonescamente controcorrente e propendo per la scelta che meno mi ispira confidando di aver preso la decisione migliore. Ancora non mi sono pienamente convinto ma nel dubbio, persevero.

Leggere mi fa venire sonno ma mi piace. Per fortuna anche dormire mi piace. Ovunque, proprio come leggere.

Ieri mi sono svegliato in una sindone di sudore ed in preda ad un miraggio. Per il caldo che arroventava la mia camera in particolare, sono certo che non si trattasse di un sogno bensì di un vero e proprio miraggio. Il caldo di questi giorni si è fatto largo a gomitate nella mia vita e saltando la lunga coda di impegni che avevo, mi si è piazzato davanti insistentemente in prima fila come un abbonato Rai. Nell’arco della giornata non riesco più a pensare ad altro che esuli dal “come sconfiggere o almeno sopportare il caldo”. Niente più sogni erotici la notte, meno birra durante la giornata, spossatezza e secchezza delle fauci. Se stessi assumendo farmaci potrebbe non essere altro che un semplice effetto collaterale od una mia intolleranza alla sostanza. Basterebbe smettere di prenderlo e tutto svanirebbe in pochissimo tempo, come la nebbia in luglio alle 5 di mattina.
Il senso di impotenza che il caldo mi infonde genera automaticamente insicurezza in qualunque cosa faccia, e se non l’ho ancora fatta, mi toglie addirittura la voglia di cominciare. Cercando il lato positivo di questa tragicomica situazione, potrei almeno dire che, da quando si muore di caldo, non lascio più nulla di incompiuto.
Ieri mattina, fradicio come un presentatore in frac sotto i riflettori in uno studio televisivo, avevo un solo unico desiderio talmente bramato da assurgere al ruolo di vera e propria necessità.
Dovevo assolutamente bere.
Lucido come mai mi capita di esserlo appena sveglio, con una razionalità che sfiorava l’assoluto, mi sono precipitato, evitando gli occhiali accanto al letto che in altre circostanze avrei sicuramente schiaccito –ed a piedi nudi, spiace, certo per gli occhiali, ma anche per la propria incolumità-, in direzione della cucina. Ho percorso a velocità sostenuta il corridoio in penombra, saltato l’infingardo scalino che per la monocromia del klinker si rende impercettibile ed in derapata a sinistra mi sono immesso in cucina. Quando sono talmente vicino al raggiungimento di un obiettivo, spesso mi capita di assaporare già il piacere della soddisfazione ancor prima di averlo fatto, abbandonando la dedizione. Ieri mattina tenevo la leva del frigorifero stretta nel palmo della mia mano destra viscida e, pavlovianamente, l’arsura alla gola, il caldo insopportabile ed il sudore bollente che mi ricopriva il corpo, altro non erano che un lontano ricordo, solo una sensazione da tempo lasciata alle spalle. Un brutto ricordo che, con la stessa velocità con cui lo avevo lasciato, nel medesimo istante mi si è fiondato addosso con una intensità almeno quadruplicata quando, aperta la porta del frigo, l’unica cosa liquida che riuscivo a vedere era la salsa scura ed oleosa di soia. Non nascondo che, lì per lì, in un nanosecondo, mi è balucinata l’idea –che si sarebbe sicuramente rivelata mortale- di dargli un sorso. Con la stessa ascetica difficoltà con cui un uomo vivo ed eterosessuale riesce a trattenersi dall’espletare un bisogno tanto primario quanto per l’appunto bere, ho cacciato dalla mia mente con una tale fermezza che mai avrei creduto di possedere, l’idea di dissetarmi con salsa di soia. In quella situazione tragicissima che non auguro a nessuno se non per scopi scientifici, ho cominciato a perdere sicurezza in me stesso. La mia prima reazione alla visione del frigorifero vuoto non è stata accettare l’oggettività della situazione bensì mettere automaticamente in dubbio la capacità del senso che mi impedeva di vedere la bottiglia dell’acqua: per l’appunto la vista. Era talmente tragico e sconcertante quello che stavo vedendo che inconsapevolmente lo spirito di sopravvivenza mi ha spinto a soccorrere la vista deficitaria con la concreta obiettività del tatto. Con le mani che si muovevano fuori dal mio controllo, in spasmodiche roteazioni ed affondi, stavo man mano perdendo fiducia anche in quest’ultimo senso. Me ne restavano solo altri tre. L’olfatto, il gusto e l’udito, purtroppo, non mi sarebbero potuti essere d’aiuto in alcun modo. Senza vagliare altre possibili soluzioni, ho cacciato spontaneamente un urlo animalesco che, con la bocca impastata reduce dal sonno, aggiungeva ancor più inutilità alla tragedia. “Cazzo, l’acquaaaaaaaa!”. In una serie talmente ravvicinata da poter sembrare sincronizzata, frutto di mesi e mesi di allenamento e rinunce, ho avvertito il classico ed inconfondibile rumore delle doghe in legno su struttura in ferro dei letti IKEA dei miei coinquilini, scricchiolare. Poi, quasi all’unisono, hanno risposto alla mia non domanda
“è finita”.
Subito mi è venuto spontaneo pensare “e se invece di esserci io, qui a morire di sete, ci fosse uno di quegli stronzi, mi sarei alzato per supportarli nella condivisione del dolore o magari, addirittura, mi sarei offerto di andare a prenderla?”. La risposta che automaticamente e quasi marzullianamente mi ha fatto eco nalla testa è stato un triste e secco
“NO!”
Nonostante questo ho pensato ugualmente
“che coinquilini stronzi che mi ritrovo”.

Questo è quanto avrei potuto risparmiarvi in quanto pertiene marginalmente alla riuscita della storia. Ma, essendo ancora incazzato con i miei coinquilini, mi sfogo con voi proseguendo.

Ieri mattina, appena recuperate le forze necessarie per mettere in moto un’azione fisica del tipo andare-alla-PAM-a-prendere-una-cassa-d’acqua, e tutto quanto si cela dietro –vestirsi e prendere i soldi-, mi sono fiondato a rotta di collo giù per le scale arroventate del palazzo in preda ad una vera e propria crisi di astinenza dal vita.
Fortunatamente la PAM si erge, nel suo inconfondibile stabile verde, l’isolato dietro il mio. Le strade sporche e deserte con il cielo azzurro e silenzioso creavano uno stato di irrealtà tale da spingermi a guardare l’orologio in cerca di qualche certezza o conferma.
8.35.
"Già, è agosto" ho pensato "ed alle 8.35 sono pochi gli sfortunati in giro per una città arroventata. È normale".
Con questo pensiero, per una seconda volta in pochi minuti, quando ormai davanti ai miei occhi vedevo la sagoma con il rassicurante verde della PAM –"solo ora capisco perchè il verde sia un colore che abbonda negli ospedali: infonde speranza"- cominciavo già a provare la sensazione di benessere autoindotto che, memore della precedente esperienza, in tutti i modi, cercavo di combattere. Ormai pochi passi mi separavano dalla porta d’ingresso a vetri scorrevoli ed in quel momento ho ceduto alla tentazione troppo forte di sentirmi appagato e paradossalmente rilassato. Quasi provavo la stessa sensazione che, solo un’altra volta nelle mia vita, mi era capitato di sperimentare. La prima volta che, dopo essermi iscritto all’AVIS, ho donato sangue, dopo che l’infermiera mi ha infilato l’ago nella vena, probabilmente per la mia suggestione nei confronti degli aghi, una dolce leggerezza ristoratrice mi ha pervaso il corpo qualche attimo prima che mi abbandonassi ad una estatica perdita dei sensi.
Giunto davanti alla porta, come Alì Babà se, davanti alla roccia, avesse sbagliato la frase magica, nulla succedeva. La porta davanti a me opponeva una inspiegabile resistenza. Non voleva aprirsi. Mentre dentro mi stava montando un senso di malessere otto volte più acuto del precedente, come un circense bulgaro od un mimo da strada, facevo mille mosse davanti alla fotocellula cercando forse di commuoverla ma inspiegabilmente non voleva cedermi il passo. Il mio malessere montava come la maionese impazzita e si diffondeva in ogni meandro del mio corpo. Il pizzichìo alle punte delle dita, indistintamente di piedi e mani, saliva man mano, rispettivamente per gambe e braccia. Il sudore improvvisamente si arrestava per lasciare spazio ad una sensazione mortale di aridità alla pelle. Il tutto era condito da un senso di leggerezza che mi pervadeva pian piano che il formichìo passava...

Mi sono svegliato pochi minuti dopo, seduto su uno sgabello al bancone di un bar con in bocca un sapore amaro e familiare. Il buio la faceva da padrone sulle poche luci accese e soffuse dietro al bancone.
“Merda, stavolta l’abbiamo presa pesante!” mi dice una voce familiare quanto l’amaro che avevo in bocca.
Con la testa appoggiata, i miei occhi, in verticale sul mondo, vedevano un bicchiere quasi vuoto messo in orizzontale con uno sfondo sfuocato in cui si riconosceva solo la faccia di Arturo.
“hai dormito quasi due ore che credevo fossi morto” si trascinava dietro le parole come un bue stanco un aratro.
“spero non ti sia offeso se ti ho finito la birra, sai, si sarebbe scaldata e sgassata”. In effetti sarebbe stato uno spreco.
Di sottofondo frusciava una versione mal registrata, sicuramente su cassetta, di Shaman's Blues dei Doors
"Will you give another chance?
Will you try a little try?
Please stop and you'll remember
We were together
Aanyway..."

Con grandi difficoltà di equilibrio e dei nervi del collo ho raddrizzato il capo e dietro il muso del Giec, il barista, campeggiava, in un bella grafia palesemente femminile, la trascrizione del pezzo migliore di On the Road
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
”Dove andiamo?”
”Non lo so, ma dobbiamo andare”.


Ho capito dove ero e mi sono trascinato a casa.

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