mercoledì 30 maggio 2007

A volte ritornano

Guido aprì il freezer alla ricerca di un filetto di platessa da scongelarsi per cena mentre si massagiava la fronte.

Quello non era un buon periodo per lui e quella giornata cominciò nel peggiore dei modi.

In principio, appena sveglio, si accorse della prematura morte di Sigismondo, il pesciolino rosso vinto per caso, con un centro netto, alla fiera di Mondovello. Guido non aveva mai avuto un pesciolino rosso in tutta la sua infanzia ed ora, all’alba dei 28 anni, se ne era trovato uno da accudire.
Guido era andato alla fiera con due suoi amici per cercare di rimorchiare qualche nuova leva locale. Dopo parecchi squallidi tentativi di abbordaggio senza lieti fini, decisero di far sosta al bar della piazza per un giro di negroni. Si sa che i negroni sono come le ciliegie ma senza i noccioli e, con in corpo quattro negroni, si diressero alla macchina per tornarsene a casa delusi dalla magrezza della giornata. Sfiorarono il Tagadà, evitarono il Taboga, poi gli autoscontri e dunque proseguirono per una via dove le giostre e la folla cominciavano a diradarsi. Quando furono all’altezza del baraccone degli anelli, l’attenzione di Guido fu rapita dalla vita bassa dei jeans di una ragazza chinata di schiena dietro al bancone. Mentre gli altri proseguivano senza aver notato nulla, Guido rallentò la camminata per deliziarsi ancora un pò di quel sorriso verticale che faceva capolino dai jeans. Perso tra i suoi pensieri e le sue fantasie, dalla bocca di Guido, involontariamente, uscì un “... ma merda, che culo!”. Non si rese nemmeno conto di quanto aveva appena detto che, da dietro il bancone, un ragazzone sul metro e novantotto di gran lunga sopra il quintale, con la faccia color sughero di quercia della Sardegna, il naso da boxer ed un tatuaggio tribale che spuntava dal collo del maglione, si sporse. Con la velocità di una faina geneticamente modificata, afferrò Guido per il bavero del giaccone e, avvicinandoselo come un'orsacchiotto alla bocca, gli sussurrò all’orecchio “...scusa non ho capito cosa hai appena detto... non è che ti spiacerebbe ripetere?”. Guido sentì il peso del fiato sul collo ed avvertì uno strozzamento all'altezza della bocca dello stomaco, quasi un morso dovuto alla fame. Le parole uscivano unte dalla bocca di quell’essere e si depositavano sul viso di Guido pesanti come il vapore dell’olio fritto sulla cappa di casa. Attonito, un pò per i negroni ed un pò per l’assurda situazione, Guido roteò gli occhi senza muovere il capo nel vano tentativo di cercare qualcuno dei suoi amici. Quando ormai disilluso realizzò di trovarsi solo in balìa delle spire di questo invasato energumeno, supportato dal suo spirito di sopravvivenza, biascicò con uno stirato sorriso di sottofondo "hey, hey amico...". Con queste poche parole che finora credeva potessero funzionare solo in circostanze cinematografiche, Guido esordì calandosi nella parte del buono di turno cacciatosi in un grosso casino e proseguì seguendo il copione "...calmo, calmo, ho solo detto che sarebbe una botta di culo riuscire a vincere uno di quei graziosissimi pesciolini rossi!". Ora la telecamera avrebbe sicuramento cambiato campo per inquadrare la faccia corrucciata del sosia di Steven Seagal. Il gigante, per niente stupito dall’irrealtà di quel dialogo, colse la palla al balzo e, allentando solo un poco la presa, aggiunse "certo amico che se non provi non vinci" e poi soggiunse sfumando un poco la voce ruvida "... ma lasciatelo dire, tu hai la faccia di uno fortunato...". Lasciando intravedere il giallo dei denti come un cane che ringhia e vuol apparire ancor più feroce di quanto già non sia, proseguì con un tono retoricamente inquisitorio e per nulla rassicurante "... perchè non prendi qualche cerchio da tirare?".
A quel punto Guido ebbe salva la vita anche se a caro prezzo. Infatti dovette continuare ad acquistare cerchi sino a che non riuscì a centrare quella maledetta boccia di vetro opaco con dentro quel rincoglionito d’un pesciolino rosso. Era il più brutto pesce rosso mai visto. Era di un rosso smunto, quasi avessero aggiunto del cloro all’acqua e le squame erano grosse con una melmetta verdastra che le ricopriva. Se qualcuno avesse visto anche solo di sfuggita quel pesciolino non avrebbe certo più creduto al detto sei sano come un pesce. Nonostante tutto questo, non appena il suo cerchio si sporcò in quell’acqua torbida e ferma, Guido si sentì addosso il peso dello sguardo dell’amico enorme fatto di una montagna di carne ed inchiostro. La mossa successiva che l’istinto ordinò a Guido fu di fingere una verosimile contententezza. Prese il pesciolino già provato di suo nella busta giallognola di plastica e si avviò, senza nemmeno salutare, verso i suoi amici.
Da quel giorno era trascorsa una sola settimana quando Sigismondo, una mattina, affiorò dall’acqua torbida della boccia con la pancia biancastra e gonfia rivolta verso il soffitto. Quando Guido alle sette se ne accorse, attraverso il vetro di quella boccia sul frigorifero, non vide galleggiare quel maledetto Sigismondo, bensì quei 54 € che gli era costato in lanci. Amareggiato, per nulla scalfito nel profondo, si preparò un caffè prima di andare al lavoro.

Poi ci fu la delusione al lavoro quando scoprì che la nuova segretaria non ammiccava solo a lui ma a tutti: soffriva di un tic nervoso. Questo, in verità, non lo turbò molto, un pò però si!

Infine, quando la giornata volgeva ormai al termine, sulla strada del ritorno a casa, ci fu il tamponamento col morto. Guido era incolonnato ad un semaforo lungo Via Saragozza da diverse decine di minuti. Il verde era già scattato almeno quattro o cinque volte e nessuno accennava a partire. Tutti cominciarono a suonare il clacson. Guido era l’unico fermo in silenzio. Il suo clacson e la sua radio non funzionavano. Era forzatamente calmo. La giornata era stata la peggiore mai capitatagli nell’ultimo decennio ed in corpo, tutto quel chiasso cominciava a montargli dentro come la panna fatta in casa. Resistette stoicamente qualche altro lungo minuto mentre tutti alle sue spalle suonavano, sfanalavano e, riflessi nello specchietto retrovisore, gesticolavano come tarantolati. In un baleno Guido esaurì quel poco di pazienza rimasta. Ingranò la retro, fece pochi passi indietro e, dopo aver buttato un occhio allo specchietto di sinistra, inserita la prima, con un bilanciamento di peso sui pedali si lanciò in un sorpasso con un piccolo stridìo di gomme. Quella mossa alleviò, seppur di poco, la sua tensione e la sua agitazione riportando il suo livello di stress a parametri accettabili. Man mano che fiancheggiava le macchine immobili che superava, spontaneamente buttava dentro uno sguardo, quasi a cercare una conferma sulla faccia che avrebbe dovuto avere il conducente. Una, due, tre, dieci macchine superate e, tutto sommato, sembravano quasi tutte facce normali; pochi nonnetti con cappello e quasi nessuna suora al volante. Con un misto di rammarico e sconsolazione Guido proseguì, acquistando sempre più velocità, nel suo sorpasso. Sopravanzò undici, dodici, quindici auto e, quando riportò lo sguardo alla strada era ormai troppo tardi. Il tachimetro avrà segnato più o meno i 45 km/h un attimo prima che Guido, con tutta la forza che teneva in corpo, a due piedi premesse invano il pedale sudato del freno. Con tutta l’energia cinetica che può sprigionare una Suzuky Maruti lanciata a quasi cinquanta all’ora, Guido tenendosi stretto al volante e schiacciandosi allo schienale, andò ad impattare violentemente contro la fiancata di un macchinone scuro intento a svoltare, con tutta calma, sulla sinistra. Il rumore di lamiere accartocciate, plastica rotta e vetri frantumati durò un attimo soltanto ma fu devastante per i suoi timpani. Guido, che non aveva la cintura di sicurezza allacciata, per la violenza dell’urto andò a sbattere la testa contro il vetro del cruscotto. Guido aveva ereditato la Maruti da una prozia morta improvvisamente qualche mese prima. Insieme alla macchina, Guido aveva anche ereditato tutti gli amenicoli che ad essa erano annessi del tipo santini di Padre Pio in ogni angolo, madonnine benedette provenienti da tutti i pellegrinaggi fatti dalla prozia alle varie Medjugorie, Fatima, Lourdes... e per finire un rosario di quelli antichi fatti in ferro e vetro. Per ironia della sorte, non solo i vari santini non avevano sortito l’effetto desiderato, ovvero quello di proteggere la macchina e chi la guidava (come questi subdolamente recitavano), ma addirittura il crocifisso del rosario, che ad ogni curva si dondolava appeso allo specchietto retrovisore, nella violenza dell’impatto gli si conficcò dritto dritto in piena fronte. Quando lo stordimento per la botta si alleviò e Guido riuscì a riaprire debolmente gli occhi, oltre ad avere la vista appannata e rossa a causa dei flotti di sangue che gli colavano dalla fronte, vide una cosa che gli fece rimpiangere di non essere egli stesso morto. Una Mercedes nera, lunga almeno sette metri con una sfilza di finestrini, molti dei quali infranti, gli si parava di fronte, lateralmente distrutta. Il primo pensiero che si formulò nella testa acciaccata di Guido suonava pressapoco così “occazzo, occazzo! Ho tamponato una cazzo di limousine con a bordo qualche bontempone di vip”. In un baleno, nella sua mente stropicciata, si proiettò un film. Iniziava con l’immagine di un titolo di giornale (come impaginazione avrebbe potuto essere il Resto del Carlino), che a caratteri cubitali riportava: “Giovane pirata della strada tampona violentemente l’auto di stato del presidente degli Stati Uniti d’America in visita d’onore nel nostro paese”. E come sottotitolo: “Gli Stati Uniti d’America dichiarano guerra all’Italia!”. Guido vide anche passargli davanti agli occhi una rassegna di fotogrammi di un programma coccodrillo che, in onda sulle reti nazionali, ripercorreva tutte le tappe meno significative della vita del presidente. Tutto questo “film” scritto e prodotto da Guido stesso ebbe la durata di qualche secondo; il tempo necessario perchè intorno alla macchina cominciassero a raccogliersi tante persone, alcuni anziani, altri meno, tutti vestiti con eleganti abiti scuri e tailleur, conditi da seriosissime facce sull’orlo della commozione. Mentre Guido, esterefatto, non riusciva ancora a capacitarsi dell'entità del danno da lui stesso causato, con in piena fronte conficcato un rosario e sul volto una sindone di sangue, tra la folla si fece largo una persona vestita di un lungo abito bianco con uno scialle color viola, attorniato da alcuni ragazzini reggenti ceri accesi. Guido, frastornato ed ancora assordato dal boato dell’impatto, non riusciva a mettere a fuoco il contesto che man mano che il tempo passava gli si creava attorno. Solo dopo qualche minuto di lunga agonia mentale, realizzò che quelle figure erano un prete e quattro chirichetti. Sempre più confuso e sempre meno rassicurato, cercò di superare l’impasse che lo teneva chiuso in macchina. Con i dolori che gli avvolgevano ogni centimetro quadrato del corpo, Guido aprì la portiera e cercò con fatica di farsi reggere da due gambe ancora tremanti che sembravano non appartenergli. Una volta fuori dalla Maruti, ora ancora più corta ma dalla linea non di molto peggiorata, il campo visivo migliorò e gli permise di capire qualcosa in più. Con gli occhi si trovò a fissare attraverso i finestrini scuri infranti della limousine nera ed ammaccata. Strabuzzò gli occhi come succede nei momenti che precedono un mancamento e si portò le mani al viso conficcandosi ancora più in profondità il crocefisso ed emettendo un vivace "Ahi!". Dentro quella Mercedes c’erano corone di fiori intorno ad una bara di mogano lucido rovesciata ed un corpo pallido e ben vestito scomposto riverso su un fianco del vano. Guido, con lo sguardo fece una panoramica su quello che gli stava attorno: la folla delle persone eleganti vestite di nero con gli occhi brillanti e venati di rosso, il prete con la faccia da curato di campagna con lo stuolo di chirichetti al seguito, pochi curiosi come sfondo che davano una macchia di colore alla scena. Solo allora Guido realizzò di avere tamponato un carro funebre mentre svoltava per il viale del cimitero seguito dall’intero corteo di parenti ed amici. Un sollievo gli alleggerì il peso che avvertiva al petto, dunque svenì a cuor leggero.

Una volta aperta l'anta del freezer sul quale giaceva la boccia di vetro con Sigismondo immobile in superficie, Guido si mise alla ricerca di un filetto di platessa da scongelare per cena mentre, ancora incredulo, si massaggiava la fronte con la mano alla ricerca di un riscontro, di un dolore in grado di confermare la realtà.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

finalmente online!!!

comune ha detto...

in risposta a:


30 maggio 2007 15.54.00 GMT
m ha detto...
finalmente online!!!


Già! Anche se, a dire il vero, è dal 16 Novembre '06 che sestavocale è online.