martedì 22 maggio 2007

il mio primo stipendio

Con il mio primo stipendio comprai una costosa bottiglia di vino. Dovevo festeggiare. Vestivo ancora il completo da lavoro del giovedì: un gessato con un grigio appena accennato ed una camicia a righe verticali alternate per spessore. La cravatta allentata, in posa. Mi vedevo nei modelli per una qualche marca di vestiti, più o meno costosa. Le vetrine lucide rimandavano una immagine patinata di me, quasi da copertina.
Una sensazione di estraneità al mio corpo naturale, proiettiva, che era, quel giovedì pomeriggio, estesa dalla busta paga infilata nella mia valigetta scura.
Mi ero trasferito a Bologna da una quarantina di giorni ed avevo passato il tempo pensando al lavoro o fantasticando sul poetico sovrapporsi delle chiese in Piazza Santo Stefano. Mi affascinava l’effetto degli anni sugli stili, le varie interpretazioni di religiosità. Le opere più magnifiche e quelle più distruttive sono di origine divina: le slanciate cattedrali gotiche e le crociate, la lapidazione, Il Giudizio Universale. La ricerca di equilibrio porta alla follia della religione, della professione di fede. Una scusa per opere altrimenti puro diletto bambinesco. Una costruzione di blocchetti Lego protratta negli anni, tendente all’eterno. Utile come può esserlo un’altra chiesa tra il rincarare degli affitti, bella come una donna a ventitrè anni. Mi sedevo quindi spesso in Piazza Santo Stefano con la planimetria delle sette chiese immaginandomi davanti ad un foglio bianco. Come avrei costruito la mia chiesa? Ne sarei stato capace?
Incontrai Maria all’inaugurazione di una mostra di un conoscente lontano nei tempi dell’università di Architettura. Anni prima, quando si viveva come in una sala incentrata su una grossa e confortevole poltrona di pelle, avvolta di libri che parevano avere tutte le risposte. Lorenzo portava irreali capelli legati a coda. Troppo lisci e lucenti anche per una pubblicità, saltuariamente argomento di discussione. Diceva di avere preso da sua madre ed io non ne dubitai mai. Aveva un modo di parlare affrettato, quasi avesse sempre altro da fare per cui doveva svuotare la bocca di tutte le parole per ascoltare, poi, stringendo gli occhi a fessura. E non sapevi mai se ti stesse studiando o se cercasse di andare oltre a vedere dietro le tue spalle. Quella sera parlò con lo stesso modo a cui ero abituato. Svilì e distrusse la sua opera lasciando dissociata e non vocalizzata gran parte delle domande preparate nei, più o meno importanti, taccuini degli ospiti. Ammise di essersi ispirato a questo per poi copiare Gropius, ammise di non avere nessuna fantasia. Concluse dicendo “la fantasia è inutile e brutta”. Ci fu un secondo di quel silenzio imbarazzato in cui il cervello automaticamente cerca di adeguarsi alla situazione, in cui dà ragione e giustificazione alla inevitabile risposta stereotipata. Applausi. E lui a guardare oltre, come sempre. Io di per me ero in piedi vicino al muro. In fondo. Avevo una visione per intero della sala e consideravo quanto fossero antiestetiche le persone viste da dietro, sedute su sedie pieghevoli di legno. Ero arrivato di fretta e non avevo ancora avuto il tempo di considerare le bozze alle pareti, di recuperare un bicchiere di spumante se non champagne. Dopo pochi minuti Lorenzo venne verso di me dicendosi felice di vedermi. Voleva la mia opinione, disinteressata come quando gli dissi che una sua tavola era inintelleggibile. Banale. Mi accompagnò per la mostra senza parlare con un bicchiere in mano. Poi mi presentò Maria. Quando la vidi mi sembrò subito bella. Ho sviluppato una debolezza nei confronti delle ragazze chiamate con quel nome da quando, a 15 anni, mi scoprii innamorato di una mia compagna di classe. Nella mia vita ho conosciuto otto ragazze di nome Maria e il massimo che ne ho ricavato è stato qualche bacio ed un paio di libri presi in prestito e mai restituiti. Scrittori russi principalmente. Ho ancora un libro di Chekov sulla scrivania in casa di mia mamma. Ho perfettamente chiara in mente la localizzazione. Potrei stimare al millimetro le esatte coordinate su un immaginario piano cartesiano.
Maria disse di essere una grande amica della fidanzata di Lorenzo, Martina. Mi parlò un po’ di lei mentre io cercavo di rilevare nel suo volto definito e dal mento sicuro qualche particolare della mia compagna di classe. Mi convinsi che avevano la stessa solare e proporzionata distanza zigomi/orecchie. Sorrisi ed andammo verso il bar dove ormai tutti parlavano disinteressandosi all’osservazione in seconda istanza delle opere. Solo un vecchio, dagli occhiali troppo tondi per non essersi ispirato ad una foto di John Lennon che dovevo aver visto in qualche dove, stazionava piantato solidamente sulle sue due gambe e lo scuro bastone davanti a Scuola Per Giardino Fiorito. Lo osservai il tempo necessario a stimarne una età attorno alla settantina e poi mi rivolsi al barista.
“Un frizzantino”
Pensai spesso nei giorni a seguire a quella sera, a Maria. Mi capitò anche un giorno di incontrarla per caso vicino a Feltrinelli, mentre studiavo il taglio e l’inclinazione della torre detta Garisenda. Quanto poteva essere stata alta? Lei aveva un libro nuovo che le avevano tanto consigliato, me lo avrebbe prestato volentieri appena letto. Domandai troppo sicuro se si trattasse di un autore russo.
“No, è l’ultimo libro di Ammaniti” rispose.
La Garisenda doveva senz’altro essere stata almeno 10 metri più alta di quei monchi resti che ombreggiavano la nostra conversazione.
Dopo qualche minuto ci salutammo ed io proseguii alla volta di Piazza Santo Stefano carico di un quaderno bianco per la mia chiesa. Attesi il tramonto, osservando insoddisfatto le righe a carboncino che aveva lasciato la mia mano, le sfumature del mio pollice ormai irrimediabilmente sporco. Lorenzo non aveva avuto torto dicendo che la fantasia era brutta. L’effettività della chiesa che avevo davanti era più bella di qualsiasi piano mi potesse venire in mente. Rincasai completamente soddisfatto, per la prima volta, da un’opera.
Il giorno seguente, col mio primo stipendio, comprai una costosa bottiglia di vino.

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