venerdì 15 dicembre 2006

la pagina bianca

La pagina bianca incute sempre un certo timore.
Una volta credevo fosse il colore a renderla tale; oggi so che non è così.

Fino a pochi giorni fa ero un venditore porta a porta di prodotti per la pulizia e l’igiene della casa. Un imbonitore di casalinghe e pensionati. Presentavo col sorriso sulle labbra detergenti per ogni tipo di pavimento (dalla ceramica al legno), vetrate e superfici plastiche da cucina. Avevo un catalogo a colori, un listino prezzi pieni a cui applicare un vertiginoso sconto ed una sacca contenente alcuni campioncini gratuiti.
La società per la quale lavoravo mi forniva settimanalmente un elenco telefonico da cui, con immensa pazienza spuntavo gli innumerevoli rifiuti. Contattavo telefonicamente i clienti la mattina e fissavo un appuntamento per il pomeriggio o per i giorni a seguire con frasi del tipo “signora, quando le fa più comodo!”. Se al fatto che, certamente, quello non era un lavoro facile, aggiungiamo anche che io sono una clamorosa frana nelle relazioni interpersonali, il risultato è facile da immaginare: in tre mesi di quotidiano lavoro, sono riuscito a piazzare si e no una decina di ordini, chiaramente a parenti ed affini, finiti i quali, la situazione da tragica divenne insostenibile. Il mio stipendio era correlato alle vendite; dal prezzo di queste veniva calcolata la percentuale che mi spettava.


Da pochi giorni a questa parte non sono più venditore.

Tutto è successo abbastanza improvvisamente, nell’arco di pochi e brevi minuti.
Avevo fissato un appuntamento per le tre del pomeriggio, in una via non molto lontano dal centro. In tenuta da lavoro, abito scuro, camicia tinta unita e cravatta, sono arrivato all’appuntamento con un imperdonabile quarto d’ora di anticipo sull’orario accordato; avevo valutato male la distanza da coprire, in realtà pochi minuti di strada. La villetta che mi trovai di fronte, diversamente da quanto mi ero immaginato, era una graziosa bifamiliare sistemata sul lato di un quadrato di prato tenuto all’inglese. Le pareti esterne della casa, palesemente tinteggiate di recente, erano di un giallo caldo, quasi fiabesco se tenuto conto del cielo terso azzurro pastello. La staccionata perimetrale del giardino, per restare in tema col prato, consisteva in due semplici file di assi di legno orizzontali, laccate di bianco e sorrette da paletti verticali; uno ogni tre quattro metri. Sul fianco della casa si scorgeva il vialetto ciottolato che conduceva al vicino garage. Sembrava di essere in una verdeggiante campagna anglosassone piuttosto che nella nostra grigia periferia cittadina. Invitato da un grazioso cancellino semiaperto, in stile con la staccionata, decisi di incamminarmi verso la villetta. La distanza da coprire per giungere alla soglia della porta d’ingresso bianca non superava i trenta metri (in realtà io sarei un geometra anche se non ho mai professato. Senza modestia, devo riconoscere che in quanto a stime sono abbastanza valido). Al centro della porte troneggiava la classica testa di leone in ottone che stringe tra le fameliche fauci un anello, e, appena al di sopra, una volta in vetro colorato. Giunto a metà stada, tra il cancellino e la porta, ho deciso, per scrupolo, di controllare l’ora: mancavano, infatti, ancora dieci minuti! Arrivato ormai in prossimità, memore degli insegnamenti ricevuti durante il corso di formazione per rappresentanti: “essere puntuali, assolutamente mai in anticipo!!!”, optai per temporeggiare facendo il giro intorno alla casa. Senza volerlo, con lo sguardo mi sono messo alla ricerca di qualche particolare della casa che potesse, in un certo modo, stonare, togliendo quella patina di perfezione che la rendeva quasi irreale. Per puro caso, voltato l’angolo della villetta, la mia vista venne catturata da un relativamente piccolo casotto in legno; uno di quelli solitamente adibiti a ricovero degli attrezzi per il giardinaggio. Quelle assi di legno scuro, nella parte verso il terreno anche un pò scrostate, con qualche traccia di muschio sul tetto spiovente, era proprio quello che stavo cercando! Era come la presenza di un neo che, nello splendore generale di un viso perfetto, lo rende reale. Ero ipnotizzato, come un diabetico di fronte alla vetrina di una pasticceria o come un bambino ad un passaggio a livello mentre passa il treno. Guidato dall’istinto, mi avvicinai alla casetta ancora rapito da uno strano automatismo. Se quello fosse stato il set di un film, mentre percorrevo sovrappensiero la stradina, sarei senz’altro incappato in un rastrello incautamente abbandonato sul prato, con il risultato di trovarmi il naso spappolato.
Purtroppo, alle volte, la realtà è molto differente e sicuramente più crudele della finzione cinematografica.
A pochi metri dalla casetta, ancora immerso in una sorta di autismo, venni prepotentemente richiamato alla realtà dal ringhiare di un cane. Con la stessa sensazione che si prova quando ci si sveglia di soprassalto da un sogno, impiegai qualche secondo per contestualizzare lo spazio/tempo in cui mi trovavo. Riacquistata piena coscienza e padronanza del mio corpo, mi voltai lentamente, sempre accompagnato in sottofondo dal poco rassicurante digrignare di denti del cane. Non potevo immaginare cosa si celava dietro di me. Quello che ricordo ancora nitidamente, sono due occhi color della bile persi in un muso massiccio ricoperto di pelo corto e nero con, appena al di sotto, due serie di denti bianchi come la carta ben visibili e serrati tra loro. L’istinto, senza bisogno di realizzare con precisione quello che stava accadendo, avendomi cacciato in quella situazione, cercò di sdebitarsi salvandomi la vita. In un lampo mi ritrovai di fronte alla porta in legno scuro della casetta degli attrezzi. Non ricordo bene se sia stata la fortuna a farmi trovare la porta aperta oppure la mia spallata ad aprirla, fatto sta che mi ci infilai. Appena messo piede dentro, con la velocità che solo la paura può dare, richiusi la porta alle mie spalle sentendomi finalmente salvo. Uno strillo acuto di bambina prima mi causò un serio collasso cardiaco ed in seguito una lesione al timpano sinistro. Girate le spalle alla porta vidi, seduta su una sedia in ferro brunito da giardino, una bambina sui tredici anni, vestita con una tuta rosa ed una bambola di pezza in mano. Con le spalle ben salde alla porta per evitare alla belva di entrare, mi trovai a gesticolare come un predicatore benedicente in direzione della bambina, nel vano tentativo di interrompere quell’insopportabile lamento. La luce, nella casetta, filtrava appena dalla finestrella al centro della porta. La scena vista dalla bambina, ammetto che possa essere stata ancora peggiore di quella vissuta da me: un uomo vestito di nero con un borsone sulle spalle che irrompe, sudato avvolto in un alone di luce fioca, nella casetta. La bambina terrorizzata non solo non smise di gridare ma, al contrario, aumentò ulteriormente i decibel emessi da quella, solo all’apparenza, innocua boccuccia. Trovatomi in una situazione inaspettata, con troppe variabili da gestire in un solo momento, finii con l’agitarmi ulteriormente innescando un circolo vizioso in cui: più mi agitavo più la bambina strillava e dunque il cane abbaiava. Non riuscivo più ad interrompere questa infernale catena. Il tempo, come è ben noto, è uno dei peggiori nemici dell’uomo ed anche in quella circostanza si divertì lasciarmi in uno spazio temporale pressochè immobile. Impossibile quantificare quanto effettivamente sia durata quella assurda situazione; quello che posso affermare con certezza è che in termini di vita mi è costata assai cara. Giusto il tempo di rendermi conto che il pericolo era ormai scampato quando, quel che restava dei miei timpani percepirono, tra uno strillo ed un latrato, lo sbattere del legno della porta sullo stipite della casa. Accolsi quel rumore come l’arrivo del redentore venuto a liberarmi dalla situazione in cui ero, involontariamente incappato. Quel “clack!” sordo, rappresentò il rumore della ganascia che spezza l’anello della catena. Attesi in grazia l’avvicnarsi di quei passi come si aspetta l’amaro dopo una luculliana cena tra amici. Tirando un sospiro di sollievo, distinsi, con estrema fatica tra tutto quel frastuono, la voce di un uomo imperiosa e sempre più vicina. Non ebbi nemmeno il tempo di avvertire l’uomo, ancora fuori dalla porta della casetta, che noi, grazie al cielo, là dentro stavamo bene, quando... “boom!”, avvertii un rumore intenso e simile alla legna secca spaccata, seguito da un più fisico colpo ricevuto alle spalle. Quella spinta, data con una forza ed una rabbia disumana, mi scaraventò a due metri almeno di distanza, giusto addosso alla bambina che mi stava di fronte. Una luce celestiale entrò dalla porta fasciando la figura di un uomo mastodontico che, a passi veloci si dirigeva verso di me, brandendo nella mano destra, come fosse una scimitarra, un manico di badile in legno.
Proprio quando si allevia la tensione dopo un pericolo scampato, diveniamo vulnerabili e fragili come un vaso di cristallo in un asilo.
Il frastuono, lo stordimento della botta ricevuta e la luce celestiale e mistica negli occhi, creò, tra i miei pensieri ovattati, un vuoto anestetizzante. Alcune parole che riuscii a distinguere, e delle quali conservo ancora il ricordo nitido, suonavano pressapoco così “.... brutto figlio di puttana di un pederasta che non sei altro...”, e non contento “... ti ammazzo bastardo...” e finalmente la giusta soddisfazione “... mia figlia ha solo tredici anni...” .Non un anno in più od in meno di quelli da me stimati! Subito, con enorme gioia, mi rimbombò per la testa “Allora la distanza tra il cancelletto e la villetta è senz’altro di trenta metri, dovevi fare il geometra, altro che rappresentante!”. Nuovamente l’irrazionalità dell’istinto si impossessò del mio corpo. In un baleno, dopo aver solo udito i colpi sferratimi dal padre della bambina con il manico senza avvertirne alcun dolore fisico, mi ritrovai nel classico, terribile cul de sac. Voltando le mie invulnerabili spalle all’uomo, quasi come in segno di sfida, mi trovai di fronte alla faccia la parete in legno scuro della casetta, senza trovare altra via d’uscita che non contemplasse la morte. Il marrone scuro delle assi di legno e l’odore di terra secca mista a muffa mi rimane ancora oggi impresso nella memoria.

Il bianco della pagina, ora, non mi suscita più nessun timore.

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